Rubriche/Cascine
Domenica 05 Giugno 2011
La rinascita della cascina dimenticata
Così la famiglia Ghianda ha ridato vita alla Molino Bernarda
Pierangelo Ghianda ha occhi scuri, profondi, che a volte svelano lampi di inquietudine, l’espressione di chi ha profondo il senso delle radici, del proprio vissuto, e proprio quando le sue pupille sembrano diluirsi in una devastante malinconia, allora il suo viso s’allarga in una maschera di allegria e di stupore, e le sue parole si mescolano alle più sonore risate, appena screziate dal gorgoglio rauco dell’accanito fumatore.
È un uomo così, Pierangelo: con un pensiero a quel che è stato ieri, e la serenità di oggi, costruita insieme alla sua compagna Cinzia, cui gradualmente ha concesso gli spazi della propria vita, a cominciare dai sentimenti del cuore sino alle cure più immediate per gli animali della cascina Molino Bernarda, alle porte di Vizzolo Predabissi.
una corte nascosta
Questa corte è nascosta ai margini della via Emilia: ad occhio nudo, per chi arriva da Lodi, non si scorge, perché è in un leggero declivio; così, pur defilata di pochissimo dal traffico automobilistico, la cascina è la porta di ingresso verso il mondo rurale di una volta: sembra di entrare in una macchina del tempo, soltanto cinque metri prima si era catapultati nella società odierna, e adesso si è in una stalletta con alcune bovine che sembrano osservare sbalordite questo curioso personaggio alto due metri, ed un suo amico a fianco, Giacomo Rossi, che invece s’allarga per rotondità, mentre Pierangelo Ghianda, da uomo che non ama i fronzoli, col forcone assesta carichi di fieno per sfamare la sua mandria.
La cascina Molino Bernarda è un luogo dimenticato dalla memoria. Ne sono certissimo, pur non conoscendone la storia. Lo comprendo leggendo un antico manoscritto, datato 1929, in cui l’Ospedale Predabissi di Melegnano, che ne era a quel tempo proprietario, lo concede in affitto ad un certo signor Giovanni Rossi: su quel brogliaccio, di accordi e clausole legali, si fa cenno al locale per la pila da riso, ma si chiarisce subito che, da anni, gli strumenti non sono più utilizzati, pur conservati in perfetto stato. E ora guardiamo dall’alto i gradini che portano in quel locale, dove la temperatura, estate ed inverno, si mantiene costante a 16°, e possiamo solo immaginare la macina e le pulegge, ma non restano che domande da porsi: chi fu l’ultimo mugnaio? Sino a quando lavorò il riso? Non è più giusto, così, dire memoria. È più corretto parlare di oblio e di dimenticanze .
una storia semplice
I Ghianda giunsero qui in tempi, tutto sommato, recenti: era il 1953. Quella loro era, nel passato, una storia umile e semplice. Il capostipite si chiamava Virgilio Celeste Ghianda, faceva il postino a Salerano sul Lambro, attività che gli aveva consentito di avere una paga fissa e che lo aveva messo in condizione di conoscere tutti, in paese, e di essere apprezzato e stimato per la sua affidabilità; così, avendo quattro figli, aveva deciso di investire nella terra e, a forza di sacrifici, era riuscito a prendere un modesto appezzamento e pure una piccola cascinetta in via Vittorio Veneto.
I ragazzi di casa Ghianda, fatta eccezione per la figlia femmina, si erano tutti dedicati all’agricoltura: ma quell’appezzamento era davvero troppo piccolo perché vi si potesse lavorare in tre; allora Marcello ed Antonio rimasero a Salerano sul Lambro, mentre il maggiorenne Domenico cominciò a fare la transumanza: prendeva le sue bestie e si spostava da una corte all’altra.
Domenico era sposato con Maria Spelta, originaria di Cavenago d’Adda, il cui papà faceva il “cavalant”, l’addetto alla guida dei cavalli da tiro. La coppia ebbe cinque figli: Giovanni, Maurizio, Maria Rosa, Pierangelo e Assuntina detta Tina. Già alla nascita del primo erede, Domenico cominciò a pensare che quella vita errante, anche se rimaneva sempre nel sudmilanese, non si addiceva ad una famiglia, alla quale, invece, intendeva offrire solide radici. Ma riuscire nell’acquisto di una corte era impensabile e gli stessi canoni di affitto erano alquanto proibitivi. Ma, ad ogni figlio che nasceva, cresceva il suo desiderio di trovare un luogo fisso. Era un uomo caparbio e tenace, e lavorava tantissimo, per garantirsi quel reddito che gli consentisse, non solo di sfamare la famiglia, ma di mettere pure qualcosa da parte.
un atto di coraggio
Agli inizi degli anni Cinquanta, si rese libera la cascina Molina Bernarda di Vizzolo Predabissi, così mal messa che andarvi ad abitare era un atto di coraggio: mancavano i servizi igienici, era priva di riscaldamento, la corrente elettrica andava a 110 watt, dunque molta fioca, e parte dei cascinali apparivano pericolanti, quando non del tutto compromessi. Tutto ciò, però, rendeva, pur ugualmente oneroso, l’affitto accessibile. Così Domenico Ghianda riuscì nel suo intento: dare ai propri figli un tetto certo e duraturo sopra alla testa.
C’era però, per onorare gli impegni economici, da raddoppiare gli sforzi. Occorrevano braccia forti e sane da destinare ai campi ed alle cure della stalla. Ovvio pensare al coinvolgimento diretto dei figli, quantomeno dei maschi. Ma qui intervenne la signora Maria, moglie discreta, che lasciava decidere ciò che il marito voleva riguardo all’agricoltura, ma che sull’educazione dei figli intendeva assolutamente dire la propria parola, e pretendeva che il marito la rispettasse: i ragazzi, infatti, dovevano studiare per non restare ignoranti.
Sino alle classi medie furono fatti frequentare loro i migliori istituti privati, con ulteriori spese da affrontare: così le due ragazze, Maria Rosa e Tina, si diplomarono entrambe maestre.
I ragazzi, quando potevano, aiutavano il padre, che inizialmente ebbe anche il saltuario sostegno dei propri fratelli. Il latte, prodotto dalle quindici bovine di cui disponevano i Ghianda, veniva conferito alla ditta Invernizzi di Melzo: nei primi tempi, essendo la stalla priva di impianti di refrigerazione per il latte appena munto, venivano effettuate due consegne giornaliere. Gradualmente ci s’ingegnò per raffreddare in loco il prodotto: il primo macchinario, a forma di cilindro, aveva al suo interno una serpentina dentro la quale scorreva rapidamente acqua a temperatura bassissima, utile appunto alla causa.
un uomo felice
Nel 1978 si presentò ai Ghianda la grande occasione: l’Ospedale di Melegnano mise in vendita la cascina. Il signor Domenico sperava nell’acquisto ed al tempo stesso manifestava evidente preoccupazione: se le sue possibilità economiche erano ormai migliorate e tali da affrontare serenamente l’impegno, le circostanze potevano anche sfavorirlo: la cascina, infatti, non appariva più il rudere di una volta, avendovi la famiglia Ghianda apportato notevoli migliorie, e su quella corte si erano rivolte parecchie attenzioni; per fortuna, egli, come affittuario, riuscì a far valere il proprio diritto di prelazione, e si aggiudicò l’affare. Era, a quel punto, un uomo veramente felice. Ricordava allora ai figli la massima cui aveva improntato tutta la propria vita: essere gratuitamente generosi con il prossimo perché le buone azioni prima o poi ritornano e premiano. Purtroppo, Domenico Ghianda non ebbe molto tempo per godersi questa gioia perché l’anno successivo, a causa di un male repentino ed inesorabile, morì. Toccò a Pierangelo, a quel punto, decidere cosa fare: i suoi due fratelli, avevano intrapreso altre strade, Giovanni aveva aperto una macelleria a Melegnano, mentre Maurizio si era dato ad un’attività commerciale. Pierangelo era iscritto all’università, frequentava già il terzo anno di ingegneria meccanica, e insegnava alle scuole Medie di Vizzolo Predabissi e di Dresano: sino a quel momento, l’agricoltura era rimasta un impegno sullo sfondo. Pierangelo s’interrogò nel profondo del cuore. Ed ancora una volta la sua mamma, la signora Maria, mostrò il suo grande carattere: gli fece capire che era assolutamente libero di seguire la propria strada, e che non aveva alcun obbligo verso l’impegno che era stato del padre.
un richiamo irresistibile
La riflessione di Pierangelo durò la spazio di mezza giornata, forse meno: non poteva voltare le spalle a quello che sino ad allora era stato il tragitto della vita della sua famigl ia, a cominciare dalla figura del nonno, il postino Virgilio Celeste Ghianda, che metteva da parte i risparmi per acquistare un pezzetto di terra.
L’agricoltura, allora, divenne il suo esclusivo impegno: Tina, a quel tempo, aveva solo dieci anni, occorreva garantirle un futuro; gli fu prezioso l’aiuto del fratello Giovanni; infatti Pierangelo dal padre aveva imparato tanto, ma non conosceva tutti i lavori; quando gli chiedeva una spiegazione o il motivo di un lavoro, il signor Domenico, che aveva cento ed una cosa da fare e non poteva perdersi in chiacchiere, gli rispondeva laconicamente: «Ghè da fà!».
Dopo la morte del padre, Giovanni consigliava Pierangelo, gli dava le nozioni fondamentali per comprendere i lavori. Lo sostenne anche economicamente nel fronteggiare le spese per l’acquisto di nuovi macchinari. Il resto lo fece il tempo: sapere andare al mercato a trattare con la gente, capire un affare giusto da quello meno buono.
L’attiv ità relativa alle bovine da latte, visto il loro esiguo numero, fu sostituita con la produzione di carni. Oggi i vitelli arrivano qui giovanissimi e portati all’età di due anni: poi, una volta macellati, vengono venduti nel negozio di Giovanni. La filiera è cortissima, perché la terra della cascina Molino Bernarda serve all’alimentazione dei vitelli. Seguendo i consigli della mamma, i fratelli Pierangelo e Giovanni, pur avendo attività differenti, si aiutano l’un l’altro, mantenendo viva la gestione aziendale.
Su quella che sembrava una corte perduta nell’oblio, grazie all’impegno dei Ghianda è stato possibile scrivere nuove pagine. E già Pierangelo, riempiendo gli occhi di nostalgia ed al tempo stesso prorompendo in una risata allegrissima, guarda al futuro prossimo: perché la vita è data di opportunità, basta solo saperle coglierle.
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