La cascina dove si librano le libellule

Alla Balbiana di Abbadia è legata la storia della famiglia Robbiati

Percorro la strada che conduce ad Abbadia Cerreto e mi piace apprezzare gli orizzonti della campagna lodigiana. L’alba deve essere sorta da poco, e i profili di case e corti cominciano a delinearsi seppure confusamente. Questa terra appartiene a chi vi è nato, forse non ci sono possono essere trapianti ed innesti: me ne accorgo perché, in questi giorni, sento sempre più forte la nostalgia di casa mia, il fluttuare misterioso delle onde sugli scogli di pietra lavica, il silenzio del vulcano in cui ha la sua sorgiva il sibilo del vento.Però Abbadia Cerreto ha un fascino speciale e provo un senso di ammirazione per la gente che vi ha vissuto e che vi abita. Nei miei primi anni lodigiani, ad ogni parente od amico che mi veniva a trovare dalla mia isola degli incanti proponevo di fare tappa qui: tutti restavano meravigliati della bellezza dell’antica Abbazia; io temevo le incursioni di don Vittorio Soldati, prete amato da tantissimi lodigiani, apprezzato dalla gente del posto per come aveva saputo preservare l’autenticità dell’edificio sacro, ma anche temuto per certe sue impennate caratteriali, talune asprezze che, come nascevano virulente ed improvvise, poi improvvisamente svanivano.Questa è terra di agricoltori che mi hanno ospitato e con i quali coltivo ancora amicizie di ormai lungo corso: come i fratelli Galmozzi; o il carissimo Vittorio Milini con i suoi famigliari. Prima ancora di scrivere sulle cascine, tanti anni fa mi capitò di raccontare la storia dei mulini del territorio, e qui ad Abbadia c’era quello dei tre fratelli Carniti; di loro, è rimasto solo Luciano: quando c’incontriamo, si parla in dialetto, lui quello lodigiano, strettissimo, io quello sicano, incomprensibile, eppure riusciamo a capirci.

FRATELLI... DI ZOLLE

Oggi filo dritto verso la cascina Balbiana, appena all’ingresso del paese. Sono ospite della famiglia Robbiati. È l’alba, ma la stalla è già affollata: oltre al titolare dell’azienda, Roberto, e al figlio Massimo che gli si è affiancato nella conduzione, c’è pure il veterinario, il dottore Francesco Ramella.Conosco il dottore Ramella da quasi dieci anni: una delle sue figlie, Giulia, è stata compagna di asilo e nelle classi elementari della mia Chiara; Francesco è figlio e fratello di agricoltori, storiche figure della cascina Calvenzano, alle porte di Lodi. Con il dottore Ramella un giorno ci siamo scoperti anche militanti della stessa comunità parrocchiale, l’Ausiliatrice di Lodi, e infine, lui milanese naturalizzato lodigiano, io isolano rapito dalle bellezze lodigiane (avendovi pure trovato moglie), abbiamo deciso di affratellarci definitivamente: e siamo così divenuti fratelli di... zolle! Non mi era però mai capitato di vedergli indosso gli abiti di lavoro: sulla testa tiene un ecografo a forma di occhiali, che è lo strumento superiore di una macchina più complicata; sulla cintola, infatti, ha avvitato un cruscotto con le batterie e legata ad esso una sonda endorettale; quest’ultima gli consente di osservare lo stato ovarico delle bovine e capire se, in seguito al parto, hanno ripristinato l’attività riproduttiva o, per i casi già accertati, siano rimaste gravide dopo l’inseminazione artificiale.Il dottore Ramella qui è di casa, ma credo che la sua faccia allegra, ed i suoi occhi che sembrano sorridere sempre ad ogni novità che il mondo riveli, siano permanenti in ogni allevamento in cui si presenti: è un uomo così, che ha legato la propria professione ad una connaturata passione. È lui a presentarmi Roberto e suo figlio Massimo. Ma la dinastia dei Robbiati ha ovviamente origini più remote.

UNA BELLA COPPIA

Il capostipite era di Modignano e si chiamava Enrico Robbiati, sposato con Angela Crozzi. Una bella coppia, assortita da caratteri diversi: nonno Enrico era una persona molto docile, per lui andava sempre bene tutto, e se qualcosa non filava dritto faceva una scrollata di spalle e cercava di cogliere sempre il lato buono delle cose; nonna Angela, invece, era più ferma; in cascina lei curava gli animali di corte e gestiva un minuscolo spaccio in cui confezionava e vendeva panetti di burro. I coniugi vivevano sentimenti religiosi profondi. Nonno Enrico era un uomo di vera fede: nel taschino del suo gilet conservava gelosamente la corona del rosario, che gli era stata donata dalla madre prima che partisse per la Grande Guerra; tornato dal fronte, non aveva più voluto staccarsi da quella coroncina, che tenne sino all’ultimo dei suoi giorni. Era molto fiero di essere stato fra i primi ad entrare nella città di Udine, liberandola dalle truppe austriache, dopo aver attraversato l’Isonzo. Nonno Enrico e i suoi commilitoni s’erano immersi nel fiume sino alla cintola; il capitano aveva ordinato loro di indossare sulla testa un fazzoletto bianco, così gli aerei italiani che seguivano l’avanzata delle truppe avrebbero evitato di mitragliare.Fu quindi Enrico Robbiati a scegliere di trasferire la sua famiglia da Modignano ad Abbadia Cerreto, quando correva l’anno 1927. Inizialmente i Robbiati furono affittuari dell’Ospedale Brignole Sale di Genova; successivamente, grazie all’intermediazione della Cassa Contadina, acquistarono la corte.Enrico ed Angela ebbero cinque figli: Giuseppe, Carlo, Marisa, Rachele e Teresa; le ultime due hanno lavorato e vissuto per molti anni a Milano, prima di rientrare ad Abbadia Cerreto.

SULLE ORME DEL GENITORE

I maschi di casa Robbiati proseguirono sulla strada tracciata dal genitore, anche se poco dopo Carlo preferì avviare una propria attività a Milano, nel settore artigiano plastico, fondando una propria azienda e lavorando pure per l’estero.In cascina rimase, quindi, il solo Giuseppe. Nato nel 1925, egli si era diplomato geometra ed era divenuto un perito per le assicurazioni che pagavano i danni causati da grandinate; era questa un’attività che associava facilmente all’impegno agricolo, anche se più di una volta, viste le incombenze che doveva fronteggiare nella propria cascina, aveva pensato di mollarla. Ma lui, in qualità di perito, lavorava in coppia con il signor Santagostini: la loro amicizia, a prova di bomba, aveva fatto sì che non riuscisse più a sganciarsi da quel lavoro, poichè gli dispiaceva enormemente lasciare da solo il suo amico; Santagonisti, avendo capito il suo punto debole, lo stuzzicava, e gli raccomandava di non abbandonarlo. Ed i due continuavano a girare per buona parte del Nord Italia.Una volta, pero, quando Giuseppe era già anziano, furono i terreni della cascina Balbiana ad essere colpiti da una violentissima grandinata. Allora, si presentarono due giovani periti: osservarono, presero nota, confabularono tra loro, e dichiararono che sì il danno c’era stato, pari al trenta per cento. Il signor Giuseppe Robbiati, che sino a quel momento era stato immobile, senza profferire neanche un respiro che fosse uno, sbottò, e spiegò che la pensava assai diversamente: fece loro una lezione sulla grandine, sul frumento, sulla tenuta dei terreni, spiegando che il danno non poteva essere inferiore al settantacinque per cento, e lasciando meravigliati e ammutoliti i due giovani periti che non capivano ancora con chi avevano a che fare. Il signor Robbiati spiegò di avere svolto per decenni il mestiere di perito e i ragazzi, sempre più azzittiti, riconobbero il danno del settantacinque per cento, si rimisero in macchina e sparirono lungo la campagna lodigiana.

AL CENTRO DEL PAESE

Dal 1927 al 2000 i Robbiati rimasero nella cascina allora in centro paese, proprio lateralmente all’Abbazia. Quella era una corte antichissima; quando vi arrivarono i Robbiati, subentrando nella conduzione ai Mamoli, vi erano già alcuni contadini, che restarono anche sotto i nuovi padroni. Fra questi, vanno ricordati Antonio Brindisi, che vi lavorò per oltre cinquant’anni, meritando la medaglia d’oro per la longevità di servizio; egli aveva cominciato la sua attività da cavallante, poi era passato a fare il trattorista, e aveva competenze validissime sulla cura dei campi; poi c’era “el Peppin”, quindi “el Cavagnin” (scumagna che derivava dal fatto che sotto braccio teneva sempre un contenitore dove erano conservati i semi da spargere sul terreno per le nuove semine), e infine Gaetano detto Tano, inossidabile mungitore.Per molti anni la cascina Balbiana rimase tale e quale era nel passato; la stalla fu ammodernata, eliminando la stabulazione fissa, soltanto nel 1985, quando si realizzò pure una sala mungitura all’avanguardia. Ma in ogni caso la capienza era per un’ottantina di bovine. Giuseppe aveva preso per moglie la signora Maria, dalla quale aveva avuto due figli: Enrica, insegnante alla scuola elementare di Sant’Angelo Lodigiano, e Roberto, il testimone di questa nostra storia odierna.

LA NUOVA CORTE

Nel 2000, i Robbiati lasciarono la cascina in centro al paese; Enrica rimase nella vecchia casa padronale, e Roberto si spostò cinquecento metri avanti, dove costruì una moderna abitazione, una stalla, e altre strutture rurali. La corte oggi è ubicata nel Parco Adda Sud, nei pressi di un sentiero denominato delle libellule, anche se è più facile qui trovare certi serpenti, lunghi due metri, verdastri, che per fortuna non sono velenosi ma che se attaccati diventano a propria volta aggressivi. Al vecchio Giuseppe non importava nulla delle libellule: lasciata l’atavica corte padronale, immalinconì, smise di lavorare, e poco dopo morì.L’attività agricola dunque fu proseguita dal solo Roberto. Egli è sposato con Corinna Lonardi, nativa di Milano, ma che ha trascorso la propria infanzia a Melegnano. La coppia ha avuto due figli: Massimo, ventiduenne, anch’egli appassionato agricoltore, e sul lavoro estremamente pignolo e determinato, e Stefania, che ha diciassette anni e frequenta l’istituto di ragioneria.Oggi la stalla vanta 130 bovine. I Robbiati sono molto affezionati al proprio bestiame: una vacca mediamente si ferma in cascina sino a cinque gravidanze; Roberto le ha tenute anche oltre, pure quando la resa del latte arrivava ai minimi termini. Questione di legami, che travalicano gli affari, i redditi, le curve di produzione, i budget, le finanze e gli incassi. Perché al fondo di tutto, nella vita come nel lavoro, dentro ogni cosa, c’è il cuore.

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