Incroci di famiglia alla cascina Molina

Carlo Toninelli, quando cammina per strada, si appoggia ad un bastone, più per avere una sicurezza che per una reale necessità: porta benissimo i suoi 83 anni, e mantiene la camminata dinoccolata del cowboy. Sua moglie Anna Maria ha gli occhi color giada e un’arguzia formidabile dietro ogni sua parola.I coniugi Toninelli mi stanno raccontando le vicende della cascina Molina di Santo Stefano Lodigiano, ed io cerco di afferrare le loro parole dentro un groviglio invalicabile di fumo ed un odore asperrimo di tabacco. Fa niente se fumiamo, hanno chiesto. Fa niente, ho risposto. Ma non immaginavo questa coltre esagerata, una sigaretta dopo l’altra: ne spegne una lui, ne accende una Anna Maria; ne spegne una lei, ne accende un’altra il signor Carlo. È come se consumassero una gara, non dichiarata, a chi deve arrivare per primo all’ultima sigaretta del pacchetto.

IL SIGNOR FASOLIIl toponimo della cascina Molina, neanche a dirlo, sembra derivi dalla presenza di un antichissimo mulino, attiguo ed indipendente dalla corte, ma che dava lustro all’intera zona: per molto tempo era stata condotto dalla famiglia Mussida, di cui l’ultimo mugnaio era stato Sante. L’attività era durata sin quasi agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso.Della cascina, invece, si narrano epiche e sinistre storie, perse nella notte dei tempi: sembra, infatti, che questa corte, una volta bellissima, fosse stata persa al gioco da un possidente di Codogno, o più probabilmente fosse stata posta in vendita per onorare i debiti contratti per via di qualche mano audace e sfortunata di poker.Tale sciagurata cessione avvenne nell’anno 1899. Ad acquistare la cascina Molina fu il signor Giuseppe Gnocchi, anch’egli di Codogno. Egli mantenne la corte per diciassette anni poi la alienò a Vincenzo Fasoli, cui è possibile ricondurre l’albero genealogico della famiglia Toninelli, o di questo suo ceppo di Santo Stefano Lodigiano.Vincenzo Fasoli apparteneva a un’importante e numerosa famiglia di agricoltori, insediati nella Bassa. Egli optò inizialmente per la diversa attività di commercio di bestiame; ma nel 1916, essendoglisi presentata l’occasione d’acquistare la Molina e le terre agricole annesse, colse al balzo l’opportunità: con questa operazione, offrì alla propria famiglia una casa autonoma e, nello stesso tempo, diede a se stesso la possibilità di ampliare il suoi affari, compensando la sua attività commerciale con quella atavica di famiglia, cioè l’agricoltura.Uomo sanguigno, amante della vita e dell’azione, portato anche per la sua attività a intraprendere rapporti umani, forse non era in totale sintonia con il carattere della moglie Savina, donna austera, nata in una famiglia di agricoltori di un paesino limitrofo al Po, e che, dopo una piena del fiume stesso, si erano visti erodere gran parte delle loro terre. Comunque Vincenzo e Savina, onorando il “modus vivendi” dell’epoca, in virtù del quale l’uomo si occupava degli affari e la donna, specie se di un certo rango, regnava sulla casa, vissero molto anni alla cascina Molina.

TRE FRATELLI PARTICOLARI Dal matrimonio nacquero tre figli: Lucrezia, nel 1903, e morta prematuramente nel 1946; Giovanni, nato nel 1905, e che morì nel 1984; e Giuseppina, che era della classe 1914 e che fu quella che visse più a lungo di tutti, visto che la sua morte avvenne nel 1997.Tutti e tre i fratelli Fasoli erano molto particolari. Lucrezia era una donna bellissima, e per quanto se ne sappia anche dotata di giudizio e misura. Ella aveva sposato un agricoltore: Toninelli Pietro “Vittorio”. Quest’ultimo, papà del nostro testimone Carlo, era originario di Caselle Landi: la sua famiglia era di quelle storiche nel ramo dei fittabili, e infatti Vittorio aveva proposto alla moglie una vita raminga, anche se di lusso. Inizialmente condusse la cascina Santa Maria, dove domani dovrebbe sorgere la nuova sede del Comune di Santo Stefano; quindi, sempre in paese, si spostò alla cascina Piantada. Dopodiché si spostarono a Camairago, dove avvenne la disgrazia della perdita di Lucrezia.Nel frattempo la cascina Molina veniva condotta dagli altri figli di Fasoli: Giovanni e Giuseppina.Il primo era tale e quale il padre, con alcune differenze: era più bello, era più desideroso di condurre la bella vita, e aveva con le donne un successo straordinario, cosa che non gli consentiva assolutamente di mettere la testa a partito, perché non appena si convinceva che una potesse andare bene, s’era già innamorato di un’altra.Infine, c’era Giuseppina: donna alquanto contraddittoria, apparentemente angelica, ma con un carattere spigoloso e, soprattutto, racconta sempre la leggenda, dotato di un cuore non propriamente tenero.

UN NUOVO ARRIVOAd un certo punto, alla corte Molina, i nodi giunsero al pettine: Giovanni se ne curava poco, preso com’era dalle proprie vicende di cuore, e Giuseppina, per quanto dura, non riusciva a far fronte alla conduzione dell’azienda. E poiché i Fasoli un agricoltore ce l’avevano in casa chiamarono il cognato Vittorio Toninelli a condurre il bene di famiglia; e Vittorio, quando correva l’anno 1949, venne con i suoi tre figli, Carlo, Maria ed Enrica.Il suo obiettivo era quello di curare l’interesse dei suoi tre pargoli, visto che per metà la cascina apparteneva alla sua defunta moglie. Ma la cognata Giuseppina riteneva prematuro parlare di spartizione delle quote, visto che il dolore per la perdita della sorella era troppo vicino e non era opportuno mescolare sofferenze ed affari. Questa strategia rese dunque poco chiari ruoli e responsabilità di ciascuno nella conduzione dell’azienda agricola.Vittorio Toninelli non era incline a mettersi a fare beghe: alto oltre due metri, appariva mite per quanto lungo. Religiosissimo, aveva portato una comunità di suore a Santo Stefano, mantenendole durante il primo periodo di inserimento; era stato nominato commissario prefettizio e godeva della sincera stima della comunità. Inoltre, capiva d’agricoltura e poiché la bella vita non gli interessava, sfogava il dolore per la perdita della consorte nelle attività di lavoro. Conduceva una possessione di 455 pertiche e curava una stalla con una sessantina di capi in mungitura.

UNA LUNGA ATTESA Vittorio osservava suo figlio Carlo e si domandava se fosse divenuto un agricoltore in grado di affiancarlo e proseguire il suo lavoro. Per questo lo aveva dapprima mandato a studiare al collegio Cazzulani di Lodi, e dopo, durante la guerra, con i rischi dei bombardamenti, gli aveva fatto completare gli studi a Codogno. Quindi avevano cominciato a lavorare insieme. Ma Carlo guardava con occhio distratto l’agricoltura: sembrava anche lui prendere la strada dell’altro ramo di famiglia, quello dei Fasoli; bello, elegantissimo, incline ad un esuberante stato di sempiterna scapolaggine. Eppure, ad un certo punto, aveva capitolato, innamorandosi di una ragazza, Anna Maria Fiamenghi, ma poi dopo un annetto di fidanzamento le aveva detto che proprio non si sentiva di fare il grande passo e che era meglio che le loro strade si dividessero.La ragazza, quella stessa donna dagli occhi colore di giada che ora sta annebbiando la stanza di un voluttuoso fumo di sigarette, seppe aspettare venti anni prima di prendersi la sua rivincita. Una fortuita circostanza avvicinò i due ex fidanzati: gli occhi di Anna Maria erano rimasti sempre gli stessi: bellissimi. E Carlo vacillò. I due erano ormai grandi: lui aveva addirittura 53 anni, e lei era vicina alla quarantina. Ma Carlo non aveva cambiato atteggiamento: un passo avanti e due indietro. Fu allora Anna Maria a prendere di petto la situazione: non era possibile ripetere gli errori di vent’anni prima, se aveva intenzioni serie, le dichiarasse, altrimenti fuori dai piedi. Carlo provò a resistere, poi cedette, ma pose una condizione: che il matrimonio si celebrasse a Lodi, ufficialmente per farlo officiare ad un suo amico prete, don Peppino Brusati, in realtà per sfuggire alle possibili goliardie dei suoi storici amici di Santo Stefano, scapestrati e scapoloni come era stato lui sino ad allora.

NUOVE CONSAPEVOLEZZEIn verità da vent’anni, almeno riguardo al lavoro, Carlo aveva messo giudizio; la morte del padre Vittorio, avvenuta nel 1960, gli aveva fatto assumere importanti consapevolezze. Era stata costruita la stalla all’aperto, aumentato il numero dei capi, e fatta la scelta di entrare nel settore cooperativistico, aderendo alla storica Santangiolina. Carlo Toninelli era affiancato da alcuni collaboratori, e figure di rilievo in quegli anni furono quelle appartenenti alle famiglie Vignati e Tansini.Tutto andò bene per molto tempo, poi cominciò il declino: non solo quello della storia agricola, per cui era stato preferibile dismettere la stalla, ma anche quello personale. Nel 1986, in seguito alla morte dello zio Giovanni, la cascina venne divisa fra gli eredi e pertanto, data la riduzione della superficie, perse la sua importanza produttiva. Non più sufficiente la produzione di foraggio per mantenere la stalla, venne dismessa l’attività di produzione lattiera, eliminando pure l’allevamento. L’attività agricola fu convertita a monocultura.Nel 1994 Carlo cadde ammalato una prima volta. Il suo carattere indomito gli fece sminuire la malattia, mentre i medici consigliavano la massima prudenza. Nel 1997 morì la mitica zia Giuseppina Fasoli, che aveva attraversato tutto il secolo Novecento senza mai decidere ufficialmente le sorti dell’azienda agricola. Alla sua morte si chiusero i battenti della casa padronale. Poi l’ulteriore malattia di Carlo impose la definitiva chiusura dell’azienda agricola.Così il signor Carlo ed io passeggiamo lungo l’aia della corte e non abbiamo più bisogno di dirci tante parole: ci si capisce anche attraverso i silenzi. Sotto al loggiato della casa padronale vi è ancora una statua della Madonna di Caravaggio voluta dal capostipite della famiglia, Vincenzo Fasoli, che riteneva di essere sopravvissuto ad un incidente stradale grazie ad un miracolo divino. E poi, sulle pareti esterne dell’atavica dimora, vi sono alcuni dipinti, ora screziati dall’usura del tempo, attribuiti ad un pittore di nome Uttini: resto affascinato dagli sfondi agricoli e rupestri. Gli Uttini - padre e figlio -, Luigi e Francesco, erano decoratori di Codogno. Lì lavoravano soprattutto nelle decorazioni funerarie, ma avevano realizzato anche affreschi per la Villa Biancardi, e possedevano comunque un’ottima vena creativa. Così lascio la cascina Molina con il desiderio, struggente, di conoscere qualcosa in più sugli Uttini. Ma questa è un’altra storia da scrivere.

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