A Zorlesco, immerso nello spesso e persistente biancore della nebbia, mentre attraverso a lentissimi passi l’aia della cascina Olza, so che non mi lascerei sorprendere se alle mie spalle, misteriosa, sopraggiungesse una voce: so per certo che sarebbe quella del cavaliere, commendatore Paolo Ciceri, che qui era arrivato nel 1932, e che fu uomo di estri e di mirabili intuizioni. Nessuno lascia mai per davvero un posto che ha amato: e il commendatore - ne sono certo - apprezzerebbe di farmi da guida nel viaggio dentro i ricordi della famiglia Ciceri.
A quel tempo la cascina Olza, una volta unica possessione, proprietà dei Vistarini e prima ancora, a metà del Seicento, della famiglia spagnola dei Silva, risultava già frazionata: una porzione apparteneva alla famiglia Magnaghi; un’altra era stata acquistata da un istituto di credito e vi era stato costruito il Centro Tori; poi i Magnaghi avevano ulteriormente frazionato l’antica possessione, alienandone un quarto ad un imprenditore milanese di nome Porri; quest’ultimo aveva gestito l’azienda agricola avvalendosi di un mezzadro e l’aveva poi ceduta, appunto nel 1932, ai Ciceri.
il podestà di corte palasio
Questa famiglia - la cui più atavica figura risale a Giovanni, nativo del 1806 - era originaria di Montanaso Lombardo. Già nella prima metà dell’Ottocento, gli eredi del capostipite risultavano conduttori di aziende agricole: Luigi era affittuario delle corti Lazzara e Bell’Italia di Montanaso Lombardo, mentre Carlo era andato alla cascina Ronchi di Corte Palasio.
Il primo aveva dedicato la sua vita ai cani, di cui era un estimatore unico: il suo “allevamento dell’Adda”, dove addestrava la razza dei bracchi, era un luogo di culto per i cinofili.
Carlo, invece, era un bravissimo allevatore, aveva un’apprezzata stalla di brune alpine, con oltre un centinaio di capi in mungitura; nel 1904 aveva partecipato alla Fiera Campionaria di Milano e s’era aggiudicato il primo premio grazie alla morfologia di un suo toro. Carlo era un uomo del suo tempo: aveva partecipato alla marcia su Roma e, fascista tutto d’un pezzo, aveva invitato il duce presso la cascina dei Ronchi, e questi s’era fatto immortalare durante un’attività di mietitura. Carlo rappresentava pure la figura di podestà e teneva molto a questo suo ruolo. Per una qualche ragione entrò in contrasto con l’ingegnere che curava gli affari della proprietà della cascina dei Ronchi e il diverbio si rivelò insanabile; a tal punto che l’ingegnere, pur di non rinnovargli l’affittanza, pretese che in un eventuale nuovo contratto a favore della famiglia Ciceri risultasse quale affittuario Paolo, il figlio di Carlo, e mai e poi mai quest’ultimo.
Tra i due litiganti, fu proprio il venticinquenne Paolo ad assumere la decisione più saggia: quantunque a Corte Palasio i Ciceri si trovassero bene, egli decise che non era il caso di fare un torto al padre, e decise così di intraprendere un proprio percorso, spostandosi alla cascina Fontana di Camairago, mentre Carlo si ritirò dall’attività e andò a vivere a Milano.
un illustre cinofilo
Paolo Ciceri era sposato con Letizia Viganò, figlia di Battista, agricoltore originario di Dovera. Rimasero qualche anno a Camairago e poi si spostarono alla cascina Olza. A quel tempo, Paolo aveva già imparato dallo zio Luigi tutti i segreti su come allevare e addestrare i cani bracchi. Se ne era così appassionato che, similmente a come aveva fatto lo zio, aveva fondato l’“allevamento dei Ronchi”. I risultati del suo straordinario lavoro non tardarono ad arrivare: nel 1936, a Stoccarda, in un’esposizione mondiale che vedeva in gare ben 360 razze, il suo esemplare di bracco si piazzò al primo posto; in quell’occasione era partito con decine di cani al seguito, in quanto i colleghi gli avevano affidato pure i propri animali. Quarantaquattro anni dopo, in un’altra edizione del mondiale, invece che nel ruolo di competitore, si presentò in quello di giudice unico della finale, primo italiano ad ottenere un livello che gli consentiva di assurgere a quel ruolo ambitissimo, cioè quello di poter giudicare tutte le razze e non solo una specifica. Questo impegno lo rese, nel settore, celebre in tutto il mondo: dopo la nomina a giudice “all around” girò tantissimi paesi, sino in Sudafrica ed in America, oltre naturalmente in Inghilterra dove presiedeva le manifestazioni cui partecipavano i migliori cani della regina. Scrisse tre libri e fu insignito, dall’università di Perugia, della laurea honoris causa.
Per tutti i cacciatori del Lodigiano, e non solo per loro, Paolo Ciceri - divenuto nel frattempo commendatore - era un autentico mito. Egli non era solito vendere i propri cani, ma li dava volentieri in affido; tuttavia, quando si trattava di fare gli accoppiamenti, li voleva restituiti: allorchè la nuova nidiata veniva svezzata, il cane era restituito al suo possessore, con in aggiunta una coppia di nuovi cuccioli; ma se il cacciatore non era propenso ad un’ulteriore accoglienza, il commendator Ciceri gli offriva addirittura una cifra in denaro, scusandosi per avergli sottratto il cane e ciò malgrado gli accordi del prestito fossero chiari sin dall’inizio.
il “mago” dei bracchi
Non c’è dubbio alcuno che Paolo Ciceri, nell’arco di quasi un secolo, seppe modificare persino la morfologia del cane bracco italiano: agli inizi del secolo Novecento questa razza, originaria del Piacentino, era di costituzione pesante e lenta; Ciceri seppe evolverla indirizzandola, nelle battute di caccia, verso la “grande cerca”, rendendo i cani più agili, di taglia più bassa, in grado di coprire con la loro corsa anche ampie distanze. Ora, la signora Letizia forse lo sospettava, ma i suoi intuiti furono inferiori rispetto a quanto accadde: la cascina Olza divenne la meta di un costante pellegrinaggio di chi chiedeva consigli su quale cane acquistare; c’erano nobili che conducevano a Paolo Ciceri intere cucciolate, delle più diverse razze, lasciandosi consigliare su quale esemplare dovessero puntare.
Alle gare ed alle varie competizioni veniva pure assegnato un premio speciale all’allevamento da cui discendeva il cane prescelto, e per venti anni consecutivi l’“allevamento dei Ronchi” si aggiudicò il titolo d’onore. I cani di Ciceri furono destinati in ogni parte del mondo. La famiglia De Angelis, quella di Elio, lo sfortunatissimo pilota di Formula 1, convinse pure Paolo Ciceri a privarsi di Artù dei Ronchi, uno dei suoi migliori esemplari.
La sua fama di eccellente allevatore gli aprì numerose porte: divenne consulente al centro ippico di Crema, dove si selezionavano a quel tempo animali da tiro, e spesso andava in Olanda per scegliere quelli più idonei. Fu poi chiamato ad occupare il ruolo di direttore dell’allevamento dell’azienda Maccarese, di proprietà dell’Iri, a Roma, dove si allevavano bovine e suini.
Malgrado la sua notorietà mondiale - morì alla soglia dei novant’anni, e dopo avere partecipato ad una gara nel Mantovano, in una serata freddissima che gli si rivelò fatale - egli rimase sempre una persona alla buona. Arrivavano in cascina marchesi e contesse, e lui si presentava loro con gli stivaloni da lavoro, ascoltava le richieste, e suggeriva i consigli. Era anche un saggio e ai propri quattro figli raccomandava di essere rispettosi delle opportunità che la vita offriva, perché essa come dava, poteva anche togliere.
una vasta progenie
Il commendatore Ciceri aveva avuto sei figli: Giancarlo, laureato in Farmacia, e che oggi vive in Sudmerica; Angela detta “Pupa”, anch’ella giudice di cani, che aveva studiato Lingue, lavorato per una compagnia petrolifera, e girato tutto il mondo; Antonio, che aveva una concessionaria d’auto, e vive a Milano; Andrea, che fece l’agricoltore; Mario, ragioniere, che aveva avviato un’azienda di informatica; ed Anna, che oggi abita a Lodi.
Andrea Ciceri fu colui che proseguì l’impegno agricolo alla cascina Olza. Avendo sempre il padre in giro per il mondo, non appena diciottenne cominciò a doversi arrangiare, e presto seppe guidare con piglio sicuro l’azienda. Modificò l’allevamento, sostituendo alle brune alpine, quelle frisone, per metà fatte pervenire dall’Olanda e per la rimanente parte dagli Stati Uniti. Così nel 1958 iscrisse l’allevamento di Frisone con il prefisso Olza, cioè un proprio marchio esclusivo. In cascina ebbe la fortuna di possedere un toro, denominato Canarino, il cui seme ingravidò numerose bovine, le cui figlie ottennero molteplici premi di qualità.
Andrea Ciceri sposò Margherita Olivari, la cui famiglia era affittuaria alla cascina Casenuove di Maleo. Dal matrimonio nacquero Paolo, Luisa, Carolina e Francesco.
Il 1 dicembre 1975 che il destino potesse girar loro le spalle sembrò ai Ciceri un fatto indiscutibile: Andrea rimase gravemente ferito in un incidente, mentre su un trattore lavorava nei pressi di un silo con il trinciato. Rimase tre anni in ospedale e quando fu congedato il suo destino sembrava ancorato alla sedia a rotelle. Suo padre Paolo lasciò il Lazio, al fine di supportarlo e sostenerlo, ma modificò gli orizzonti dell’azienda agricola: fu abbandonato l’allevamento di suini e dimezzato quello delle bovine, con la prole del toro Canarino ceduta in blocco ad un allevamento del sud Milano.
nuove generazioni
Successivamente furono le nuove generazioni dei Ciceri ad occuparsi dell’azienda di famiglia: i figli maschi di Andrea, Paolo e Francesco, hanno entrambi scelto di fare gli agricoltori, ricapitalizzando il numero del bestiame sino ad acquisire tre anni fa una nuova corte, la cascina Giulia di Cavenago d’Adda.
Anche Paolo è un fautore della genetica per le bovine ed ha il ruolo di presidente dell’Associazione allevatori di Milano e Lodi nonchè quello di vicepresidente Associazione nazionale allevatori Frisona Italiana; è pure un appassionato di cani, ma proprio per evitare paragoni col nonno, che sarebbe stato inimitabile, ha preferito ritirare dall’Ente Nazionale della Cinofilia Italiana il prefisso del marchio “Allevamento dei Ronchi”. Poi, poiché sangue non mente, è giudice per le competizioni riservate alle bovine frisone: a Paolo piace l’ambiente delle mostre, che riservano emozioni speciali, e che premiano gli sforzi degli allevatori e la passione con la quale crescono le proprie bestie.
E dentro la nebbia notturna che avvolge la campagna di Zorlesco avverto, lungo il selciato della strada, che le impronte dei Ciceri hanno lasciato nella storia agricola orme indelebili e solidissime. Perché sì, è vero che la vita dà e sa anche togliere. Ma, se la si rispetta, ogni cosa che dà, resta poi in eterno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA