Il maestoso incanto della Ca’ di Sopra

Maestosa. Incantevole. Sublime. E forse non sono sufficienti questi tre aggettivi per rendere l’idea della bellezza di Villa Rho Confalonieri Belgioioso, al cui interno vi è l’azienda agricola Cà di Sopra, la cui denominazione finì nel tempo per identificare l’intero complesso. La mappe catastali rivelano che preesistente a questo edificio vi fosse un’originaria struttura risalente alla metà del Quattrocento. Certo è che la villa fu voluta dal senatore Paolo Rho quale esclusivo suo luogo di villeggiatura.

la palla d’oro

I Rho, signori di Borghetto Lodigiano, fra i cui esponenti risaltavano giudici e politici di rango, erano ricchissimi e al nome di questa casata è legata pure una macabra vicenda: quella della palla d’oro. La tradizione narra che un rampollo di questa nobile dinastia avesse letteralmente perso la testa per la giovane figlia di un custode, che non intendeva cedere alle sue lusinghe. Il corteggiamento pare fosse rifiutato per non incombere nelle sfuriate del genitore, che era gelosissimo della propria figlia. Ma l’audace corteggiatore non desisteva e pensò di sedurre la ragazza con un sicuro espediente: quello della ricchezza. Le donò una palla d’oro. Forse la fanciulla mostrò di apprezzare il dono, perché l’ipotetico suocero s’inalberò a tal punto che punì entrambi, gettandoli attraverso una botola in uno scantinato, insieme a quella maledetta palla d’oro. Ora, pare che alcuni palazzi dei Rho fossero tra loro collegati grazie a strade sotterranee: i giovani cercarono con molta probabilità una via d’uscita, ma di loro si persero le tracce, e così della palla d’oro. Tanto che anni fa, neanche troppi, un gruppo di volontari, con la scusa di mappare i percorsi segreti di Borghetto Lodigiano, decise di mettersi alla ricerca di questa magica sfera, ma fatte poche decine di metri di un tunnel sotterraneo, valutate le precarie condizioni delle mura, fece ritorno di gran carriera alla luce del sole, rinunciando ad ogni velleità.

cambiamenti

Nella seconda metà del Settecento, il palazzo appare suddiviso in due settori assolutamente identici, uno appartenente a donna Flaminia Rho e l’altra al fratello don Francesco Rho. Ma a quel tempo l’edificio mantiene in pieno la sua destinazione di elegante casa di villeggiatura. La dimora padronale è un gioiello dell’architettura lombarda: gli esperti di storia dell’arte ne sottolineano «l’apertura all’esterno con una serie continua e regolare di finestre in asse, e tetto a due falde, collegate su travatura lignea con rivestimenti in coppi di laterizio». Ho avuto modo di visitare i tre piani della dimora e le due ali: trovando ogni cosa incantevole, dai soffitti col disegno ad ombrello, agli affreschi, alle travature in legno.

Nel 1867 alla villa si manteneva ancora un’aria salubre, arricchita però dall’odore dei liquami di giovani manzette: cominciava infatti l’epopea delle aziende agricole, che caratterizzarono in modo sempre più significativo la destinazione d’uso dell’antica casa dei Rho.

A fianco del palazzo furono realizzati nuovi corpi: sul lato nord spiccava una vitellaia, mentre su lato ovest fu aggiunta una piccola corte attorno alla quale vennero collocati i lavatoi, il forno, l’accesso alle cantine, tutti ambienti ancora esistenti. Nel 1881 fu realizzata la porcilaia; nel 1897, un’imponente stalla per le manze. Lo sviluppo dell’azienda agricola si completò, infine, con l’ulteriore estensione delle case coloniche e con la creazione di un casone, luogo adibito alla produzione del formaggio ed alla sua stagionatura.

dalla montagna

Nel 1953 la famiglia Valsecchi divenne affittuaria di questa splendida corte. I Valsecchi erano originariamente montanari: il capostipite si chiamava Rocco, sposato con la signora Lucia, che per essere del 1850 appariva un’antesignana della donna moderna; ella, ad esempio, era un’accanita fumatrice: e la carrozza su cui viaggiava aveva nell’abitacolo una costante nuvola di fumo.

Da questa coppia erano nati cinque figli: Caterina, Luigina, Franco, insegnante di storia napoleonica all’Università di Roma, Antonio, ingegnere, emigrato al rovescio con destinazione sud a Battipaglia, e Luigi, che mantenne le tradizioni agricole di famiglia, ma scendendo a valle, e raggiungendo appunto Borghetto Lodigiano. Qui, egli aveva acquistato la cascina Vallazza di Borghetto Lodigiano, dove rimase per molti anni.

Luigi Valsecchi curava la sua azienda agricola in ogni particolare, e non fu quindi un caso se, dei cinque figli che ebbe, i tre maschi decisero di divenire a propria volta agricoltori: Rocco si spostò alla cascina Pontirola di Massalengo, Antonio alla cascina Martana di San Martino in Strada, mentre Ambrogio rimase Borghetto Lodigiano. Le due femmine, Giovannina e Rina, invece divennero punti di riferimento per i fratelli e i loro figli: soprattutto la zia Rina fu una presenza importantissima in quanto, essendo rimasta nubile, dedicò tutte le proprie attenzioni alla famiglia d’origine.

gentile e concreto

Ambrogio Valsecchi, di cui si seguono le sorti, era nato nel 1907. Fu proprio lui a scegliere di divenire affittuario della corte Cà di Sopra: egli aveva sottoscritto il contratto con l’architetto conte Lodovico Barbiano Belgioioso, persona elegantissima ed al tempo stesso arcigna, dotata di una sguardo altero, in grado di radiografare il più minimo particolare dell’interlocutore che aveva di fronte. Ambrogio gli piacque per quei suoi modi gentili e al tempo stesso estremamente concreti. Infatti, l’uomo era fatto così: asciutto, e al tempo stesso profondamente buono. Ad Ambrogio piaceva l’essere umano in quanto tale; teneva tutti nella stessa considerazione: grandi o piccini che fossero. Anzi, proprio con i ragazzini ci sapeva fare: li incuriosiva, spiegava loro i segreti dell’agricoltura, e voleva sempre sincerarsi quanto comprendessero delle sue improvvisate lezioni.

Ovvio che i collaboratori lo stimassero e gli volessero davvero bene: fra questi si ricordano il fattore Tognu, la cui figlia Giuseppina lavorava come cameriera a casa dei Valsecchi; poi c’erano i contadini Paulin e Cecu, i trattoristi Piero Marinoni, Ernesto Garotta ed Aldo; tra stalla e campagna si ricordano Domenico Cecca, Tugnon, Stefano, Celeste, Sandro e Pierino. Peppino Fregoni era l’addetto alla porcilaia: in cascina vi erano una quarantina di scrofe, e lui quotidianamente, inverno ed estate, preparava loro il cibo rimestando la polenta in enormi pentoloni.

terra e latte

Come agricoltore, Ambrogio Valsecchi pur dedicandosi agli ottanta ettari di terra, ritenne che la vera risorsa di un’azienda agricola fosse il latte: aveva perciò una stalla con centoventi bovine in mungitura, e sopratutto era orgoglioso dei suoi due tori da monta, denominati Nembo e Lorez. Gli piaceva quel mestiere al sciur Ambrogio: per un periodo fu afflitto da una fastidiosissima flebite e i medici gli avevano consigliato riposo assoluto, che già starsene in poltrona era sforzare la gamba; così quando arrivava il dottore, Ambrogio si faceva trovare, tutto giudizioso, in pigiama, a letto, con il lenzuolo fin sopra il mento. Ma non appena il medico se ne andava, chiedeva ai contadini di essere trasportato sopra un carretto, con l’arto sofferente ben disteso, e di essere condotto in campagna per controllare i lavori. A quel tempo la corte assumeva una condizione sempre più “rosa”: la signora Maria Lucia Belloni, consorte di Ambrogio Valsecchi, nativa di Cornegliano Laudense, figlia di agricoltori, non restava con le mani in mano, ed era molto attenta sia nella cura dei vitellini che nella gestione della porcilaia. E la cognata, la mitica zia Rina, era la vera regina di quella bellissima casa.

nuove generazioni

Ambrogio e Maria Lucia ebbero tre figli: Luisa, insegnante a Villanterio, Roberto, ingegnere e residente a Milano, e Luigi, che ha proseguito l’impegno paterno. Nel 1980 il sciur Ambrogio morì per un infarto. Aveva 73 anni ed era un uomo nel pieno delle sue energie. Il figlio Luigi la prese male: aveva l’appoggio della madre e della zia, e ciò gli consentì di proseguire gli studi in Scienze della produzione animale e di laurearsi. Ma il mestiere, pur piacendogli, non gli entrò mai nel sangue: s’impegnò, ma con distacco. Nel 1983 sposò Patrizia Chioda di Lodi, deceduta nel 2004.

Dall’unione, è nato Andrea ed è lui oggi a rappresentare l’indomita indole agricola della stirpe Valsecchi; per carattere, Andrea è tale e quale al nonno Ambrogio: davvero, questo ventottenne starebbe sempre in pista, dall’alba all’oscurità della notte più fitta.

Oggi l’azienda agricola, rinunciato alle bovine nel 2002, ha indirizzo cerealicolo: si coltivano mais, orzo, frumento, prato per fieno. La maggior parte della produzione viene destinata ai colleghi agricoltori, e solo una minima porzione ai commercianti. Andrea è un ragazzo molto sveglio, che ama andare controcorrente e che crede fortemente ai sani principi dell’agricoltura tradizionale; ma essendo appunto persona intelligente non sfugge ad un’attenta analisi della situazione di mercato: molti terreni ormai sono coltivati esclusivamente per la valorizzazione degli impianti di biogas e relativa produzione di energia elettrica. Inevitabile, allorchè continuano a chiudersi le stalle e a dimezzarsi il numero delle bovine. Ma questa semmai è ancora una conseguenza. Il vero nodo centrale sta nel terreno, il cui valore, collegato all’ipotetico utilizzo di miscele varie di cereali per la produzione di biogas, aumenta in modo sempre maggiore: ad acquisire gli appezzamenti di terra, oggi posti in vendita o in affitto, sono oggi esclusivamente i produttori dell’energia alternativa. Gli unici che possono fronteggiare un mercato a rialzo. I produttori di latte con quello che guadagnano, infatti, non potrebbero permetterselo. Da un’indagine effettuate tra addetti ai lavori pare inoltre che le ultime acquisizioni siano state fatte da imprenditori non del territorio, come se questa terra fosse oggetto di mire espansionistiche provenienti dall’esterno. Invisibilmente stanno cambiando natura, conformazione, destinazione d’uso dei nostri terreni, e persino la mappa famigliare della società agricola. Una cesura col passato si evidenzia in modo costante, progressivo, ed irreversibile. Meno male che c’è Andrea Valsecchi. A ragazzi così andrebbero lodi ed incoraggiamenti. Non balzelli, tasse, e sempiterni castighi burocratici e normativi.

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