A me sembra di immaginarli, Mansueto Riboldi e sua moglie Gesuina Ercoli, davanti all’uscio della loro casetta di corte, alla San Jorio di Codogno: coppia di contadini, lei nativa del 1914, piena di interessi e curiosità; lui invece, della classe 1908, più schivo, in pace con se stesso, e mai desideroso di uscire dai perimetri della cascina.Mansueto era fatto così: gli piaceva sgobbare sul lavoro, meritarsi la stima dei fittavoli, e il suo mondo era quello dei campi e delle rogge che li attraversavano. Non aveva mai visto il mare. Non che fosse una sua curiosità: semmai la circostanza sbalordiva gli altri. Così, un giorno la comunità parrocchiale, che organizzava una gita a Venezia, lo coinvolse nel viaggio. La moglie Gesuina pensava di fargli chissà che sorpresa! Mansueto partì possibilista verso la nuova esperienza, ma rientrò oltre modo confuso: quell’orizzonte d’acque lo disorientava, i sussulti del vaporetto lo angosciavano, e l’idea di un fondale forse profondo quanto un abisso lo inquietava. Quando rientrò in cascina giurò che non sarebbe mai più partito.
UNA VITA SEMPLICE
Le scelte di vita di Mansueto Riboldi erano sempre state rivolte alla più totale semplicità: suo padre, Giuseppe Riboldi, era stato un piccolo coltivatore diretto nella Bassa lodigiana, quasi ai confini con Cremona, ma quando la sua famiglia cominciò a crescere, valutò i perimetri della propria terra, che non era tanta, e per maggiore sicurezza preferì andare a lavorare alle dipendenze di un altro agricoltore. Poiché sapeva il fatto proprio, era stato nominato immediatamente fattore. Giuseppe amava il lavoro che invecchiando, invece di godersi il riposo, aveva accettato anche altri ruoli: dapprima ne aveva occupato uno di rilievo, perché faceva il camparo. Poi alla fine dava una mano in stalla, portando a pascolare le giovani manze in campagna.Giuseppe Riboldi aveva sposato Giuseppina Bergonti; avevano avuto quattro figli, ed uno di loro era appunto Mansueto. Quest’ultimo, allora, trovò nel padre una vera guida, e soprattutto un esempio. Il carattere pacifico, quasi accompagnasse il suo nome, mise Manuseto nelle condizioni di essere sempre in pace con tutti. Insieme alla moglie Gesuina, ebbe una sola preoccupazione: non contrarre mai debiti, non doversi mai trovare nelle condizioni di restituire anche una sola lira al prossimo. Se Mansueto lavorava nei campi, la moglie Gesuina come lui non stava mai un istante ferma; tutte le donne, alla cascina San Jorio, erano costantemente coinvolte ed impegnate nei lavori. Più ancora che gli uomini seguivano il corso della natura: in primavera c’era da zappare la terra, e da ripulire le zolle dalle parti segate di frumento, in autunno da tagliare e scartocciare il granturco, e poi da gestire i cereali una volta depositati sull’aia della corte. Ciascuna donna badava alla propria dote: il maiale, le galline, l’oca. Gesuina lavorava pure come domestica nella casa dei padroni, non in modo fisso, ma veniva chiamata all’occorrenza e aveva con loro un rapporto di affettuosa cordialità.
DUE DONNE RAFFINATE
La proprietà della San Jorio, nell’Ottocento, era stata della famiglia Madonini; poi passò alla famiglia Rapelli, e da questa, attraverso varie discendenze, è giunta al ramo dei Rapelli Gasparetto. La famiglia Rapelli era molto conosciuta a Codogno: il capostipite era stato un pezzo grosso, probabilmente un notaio, e aveva accresciuto notevolmente il proprio patrimonio. I suoi eredi avevano acquisito terreni e cascine. Quella della San Jorio apparteneva alla signora Teresita Rapelli, donna raffinata, ma al tempo stesso di animo semplice e spontaneo: le contadine della cascina quasi la veneravano, perché lei era l’autenticità fatta persona; le capitava di girare per le case dei contadini e se avvertiva un buon odore di brodo non disdegnava di portarne in casa un assaggio e di ricambiare con un’altra pietanza della sua cucina. La signora Teresita aveva lasciato in eredità la corte San Jorio alla propria figlia Ernestina. Quest’ultima, elegante altrettanto la madre e anch’ella di animo assai buono, era sposata con l’ingegnere Eugenio Gasparetto, di origine venete, che lavorava in Alfa Romeo.La coppia aveva avuto tre figli maschi: Ettore è divenuto titolare di cattedra al Politecnico di Milano, e anche gli altri due, Cesare e Michele, si sono realizzati quali liberi professionisti. I tre ragazzi esibivano lo stampo Gasparetto, e più ancora Rapelli: prima di trasferirsi a Milano, avevano completato gli studi liceali rimanendo Codogno, e si erano sempre rivelati alla mano, non s’erano mai dati arie di alcun tipo, e fra i loro amici annoverano molti figli dei contadini. Questi ultimi stavano quindi più che volentieri alla cascina San Jorio: intanto per i sempre ottimi rapporti tra proprietà e fittavoli, che garantivano un clima di bella armonia nella corte; e poi perché la struttura era proprio a ridosso del centro di Codogno, ed era forse l’unica cascina, nella zona, ad essere in una posizione così strategica.
FITTAVOLI
I Gasparetto mantengono la proprietà della corte San Jorio, che inevitabilmente oggi, come la quasi generalità delle cascine, ha lati di evidente declino, ma non l’hanno mai condotta direttamente; ciò malgrado l’ingegnere Eugenio avesse già di suo la disponibilità di terreni in Veneto e potesse vantare una buona esperienza: ma il suo impegno alla casa automobilistica non gli concedeva distrazione. Così la famiglia Rapelli Gasparetto, nella prima parte del secolo Novecento, si limitava ad abitare la casa residenziale della cascina, mentre un alloggio, comunque di rilievo, era riservato agli affittuari.Nel tempo la cascina San Jorio rappresentò un’azienda agricola affidata ai fittavoli, gente che lavorava sodo, che nell’impegno agricolo arrivava persino a spaccarsi le ossa pur di ampliare il proprio reddito e garantire un solido futuro ai propri discendenti. In un primo periodo - e almeno sino agli anni Cinquanta - a condurre la corte fu la famiglia Cavalli, i cui discendenti si spostarono successivamente in diverse cascine nella Bassa.I Cavalli erano originari della provincia di Piacenza: il capostipite raggiunse il Lodigiano nel 1924, sistemandosi alla cascina Divizia di San Fiorano. A capo della cascina San Jorio venne il signor Carlo, personaggio autoritario, a tratti burbero, ma dietro la cui scorza ruvida si celava un uomo generoso, dal cuore buono, che senza sbandierarlo ai quattro venti sapeva chi aiutare e come; era un uomo schietto e molto onesto, e pensava che il valore della lealtà accomunasse tutto il genere umano: questo gli aveva causato, negli affari, più di una delusione. Era un agricoltore veramente capace, in grado di trarre il massimo dalle proprie risorse: l’azienda agricola vantava in quegli anni una sessantina di vacche da latte, una cinquantina di manze in allevamento, ed almeno sei stalloni da tiro. Il signor Carlo Cavalli aveva sposato Erminia Contardi di Caselle Landi; dall’unione erano nati tre figli: Angelo che fece anch’egli l’agricoltore ed andò a condurre, sempre a Codogno, la cascina Caselnuovo, ed oggi vive a San Fiorano; il compianto Silvano, che si laureò in chimica ed insegnò alla scuola Itis di Casalpusterlengo; e la figlia Carla, che è rimasta a Codogno.Quando i Cavalli lasciarono l’affittanza della San Jorio, vennero a condurla i Visigalli. Loro erano originari di Santa Maria dei Sabbioni, nel cremonese. Inizialmente si sistemarono a San Fiorano e da qui, gli eredi, si spostarono alla cascina San Jorio di Codogno. A condurre la corte della famiglia Gasparetto, furono i fratelli Giovanni e Peppino Visigalli, il primogenito e l’ultimo di un bel numero di fratelli, erano in otto, e fra di loro ci fu pure una suora: suor Serena Visigalli.
LA MENTE E IL BRACCIO
I due fratelli erano, come soleva dirsi una volta, la mente ed il braccio della corte. Avevano una differenza d’età di vent’anni: Giovanni si dedicava prevalentemente agli aspetti commerciali, che era bravissimo a gestire; nei mercati era personaggio autorevole e stimato: sapeva sempre piazzare l’affare giusto, aveva la dote di cogliere l’attimo. Era una persona benvoluta per la sua simpatia, e perché aveva davvero un modo speciale di porgere con la gente. Giovanni era sposato con Giuseppina Tortini; i coniugi avevano tre figli: Sante, ingegnere, che lavorò alle Officine Adda di Lodi, e Anna e Pasqualina, che rimasero a Codogno.L’altro fratello, il minore, Giuseppe, noto nella Bassa come il sciur Pepin, era un personaggio schivo, che aveva in testa una sola cosa: il lavoro. Era impegnato dalle cinque del mattino alle diciotto della sera. Tutti i santi giorni. Sotto questo aspetto, diventava pure un comunicatore: perché sapeva trascinare con l’esempio, e sembrava dotato di una forza inesauribile. Egli s’era sposato in età matura con Anna Bianchi, maestra elementare della frazione Reghinera di Cavacurta, dalla quale ebbe un figlio.Il ricordo di sciur Pepin, come l’intera storia di questa pagina, ha un testimone d’eccezione: Franco Riboldi, in paese conosciuto da tutti come Franchino, figlio di Mansueto e Gesuina. Franchino non ha lavorato in agricoltura: ha intrapreso un’altra strada, che gli ha dato i giusti riconoscimenti professionali e sociali; ha sposato Andreina Garioni, anch’ella originaria di Codogno. Ma, quando era ragazzino, gli capitava di aiutare il padre, e di osservare all’opera il vecchio sciur Pepin Visigalli: e dopo avere issato sul carro interi carichi imballati di fieno, di vedere suo padre Mansueto e il fittavolo quasi freschi e riposati, mentre lui, giovane virgulto, si sentiva la schiena a pezzi.
UN FASCINO INALTERATO
I Visigalli restarono in azienda sino agli inizi degli anni Duemila. E, malgrado nel secolo Novecento si fossero radicati in più cascine, nessuno dei nuovi discendenti ha più voluto proseguire con l’impegno agricolo.La corte San Jorio, i cui campi oggi sono condotti da un agricoltore che ha una cascina limitrofa, sembra un baluardo inaccessibile, come il castello della fiaba della Bella Addormentata: certo, lì dietro c’è il cuore dell’isola pedonale di Codogno, e di qui ci sono i caseggiati della cascina, quelli rurali e quelli che una volta erano bellissimi, e tutt’ora mantengono inalterato il proprio fascino, e appaiono immersi nel groviglio degli arbusti, dentro un morso freddo di solitudine.Da dieto l’inferriata di un cancello, allungo la vista per quel che si lascia intravvedere. Poi, di nascosto a Franchino e a sua moglie Andreina, accosto l’orecchio destro: mi sembra di intuire, limpide, le voci di Mansueto e Gesuina Riboldi.
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