Da cinque secoli all’ombra del “Gabòn”

In alcune circostanze mi è capitato di pensare che si potrebbe scrivere una storia del Lodigiano rivisitando le esistenze dei tanti don, preti di zolle e di animi spirituali elevatissimi, che popolarono una volta queste terre. Me ne convinco ulteriormente, ascoltando le parole del signor Francesco Cipolla, agricoltore della cascina Ca de Cani, in linea d’aria vicina al bel santuario di Arcagna.E proprio in questa frazione - aggregata a Montanaso Lombardo dal 9 giugno del 1870 - di prevosti interessanti ce ne sono stati tanti, a partire da un certo don Frugerio, di cui s’interessò direttamente Papa Innocenzo IV, che gli appioppò una scomunica per essere entrato in dissidio, forse teologico, più probabile d’interessi, con altri prelati dei paesi vicini.

LA MADONNA MIRACOLOSA

Era, allora, un destino che ad Arcagna finissero per aleggiare un’aurea spirituale, un afflato di buoni sentimenti, una capacità d’essere comunità di cittadini e di cristiani, che trovano ancora le proprie radici nella devozione all’effigie di Maria Vergine, più universalmente conosciuta come la “Madonna del Gabòn”.La tradizione è nota ai lodigiani, ma vale la pena di raccontarla per gli stranieri come me: nel 1649 un contadino mentre arava un campo si accorse che i suoi buoi non procedevano; andò a verificare cosa li fermasse e notò quel che gli apparve come un muro; scrostando la terra dall’intonaco si accorse che aveva davanti un quadro della Madonna: a quella vista, il cielo che da giorni si manteneva uggioso divenne azzurrissimo, di un cobalto mai visto prima di allora; Arcagna sembrò nascere a nuovo giorno: persino il parroco di allora, che da due anni aveva un’afonia tale da renderlo muto, riprese il suo tonante vocione.L’immagine della Madonna Assunta fu collocata nella chiesetta della frazione, poi assorta a santuario. Ma da quel momento, il luogo dove fu ritrovata l’effige divenne meta di pellegrinaggio e di fede, e simbolo ne fu un particolarissimo olmo. A fianco dell’albero fu realizzata una riproduzione del dipinto. Quell’arbusto è sempre stato uno spettacolo: diviso in due parti, su un tronco assolutamente vuoto, da un lato aveva semenza femminile e dall’altro maschile, e quindi da una parte fiori e dall’altra frutti, e ancora colorazioni e forme differenti. Purtroppo, la pianta è stata sradicata dal vento tre mesi addietro. È stato un colpo durissimo per la comunità di Arcagna e per i fedeli di un più ampio territorio. Ma è già incredibile come sia potuta resistere trecentocinquant’anni su un tronco vuoto, una “gaba” appunto, da cui il detto “Madonna del Gabòn”.Adesso la pianta è divisa in due parti: il corpo centrale è situato su un’aiuola accanto al Santuario, mentre la parte inferiore della “gaba” è rimasta dov’era e sulla parte alta della sua corteccia stanno germogliando tantissimi fiori: un giorno forse nascerà un nuovo olmo.

SACERDOTI DEVOTI

Il culto della Madonna del Gabòn si radicò nella seconda metà dell’Ottocento, grazie a don Angelo Bezza, e soprattutto a don Cesare Gorla; quest’ultimo era - per tornare alla fama dei preti del Lodigiano - un prevosto che in molti volevano in odore di santità. Intanto ogni notte, e mai che ne saltasse una, faceva una processione dalla parrocchia al santuario. Poi aiutava il prossimo in ogni modo. Anche mettendo in essere stratagemmi, con rispetto parlando, che avevano se non del miracoloso, del magico; una volta un contadino era avvilito perché tutto il raccolto del riso stava per essere divorato da truppe di topolini rossi, temibilissimi nemici dei cereali. La distruzione di quel raccolto significava un periodo di fame nera per il contadino e per la sua famiglia. Il pover’uomo, sconsolato, si rivolse a don Cesare affinchè lo aiutasse a non imprecare contro il cielo. Allora il prevosto, accompagnato il contadino innanzi al raccolto, gli ordinò di prendere un robusto ramo di salice e di collocarlo, tra le sponde di una roggia, tra due campi, quello dov’era ammucchiato il riso ed un altro. Così fece il contadino. E con sua meraviglia notò che, durante la recita delle orazioni, i topolini in fila indiana salivano sul ramo di salice e percorrendolo s’addentravano nella campagna e sparivano.Francesco Cipolla mi guarda stupito della mia incredulità: l’episodio ebbe un testimone oculare, allora chierichetto, a cui è possibile chiedere ulteriore conferma. Mi dice pure chi è, e so persona di degnissima fede.

UNA STORICA PROCESSIONE

Anche la cascina Ca de Cani ha la sua storia. Il suo toponimo risale alla famiglia Cani, che ne fu a lungo proprietaria. La possessione è menzionata nel catasto del 1500 di Carlo V, ed era esentata da tasse purché venisse affittata e sistemata in quanto in stato di abbandono. Successivamente la cascina divenne proprietà Maineri. Nel Settecento apparteneva ai Pallavicino, prima Giorgio e poi Gaetano; alla fine di quel secolo e sino al 1877, la cascina Ca dei Cani fu un bene dei Cerasoli, importante famiglia di Lodi, proprietaria anche del Molino della Muzza Piacentina. Ad essa succedette la famiglia Staffini e dunque - ma sempre nello stesso più ampio nucleo parentale - ai Zanoncelli Ciceri. Nel 1934 l’acquistò l’ingegnere De Micheli, che nel 1958 la vendette al colonnello medico Giacomo Filippini, di Besana Brianza, decorato con medaglia d’argento al valor militare, primario all’Ospedale di Niguarda, uomo di larghissime vedute, e di cui i Cipolla furono inizialmente affittuari. E ancora oggi Francesco Cipolla parla del colonnello con ammirazione perché non obiettò mai nulla alle richieste avanzategli, mostrando di comprendere sempre le ragioni di natura agricola. Il colonnello due volte al mese scendeva in cascina, faceva per un’oretta il giro della possessione, verificava che la zona di Arcagna fosse sempre bella come la ricordava e quindi se ne tornava in brughiera. Queste abitudini le mantenne sino alla fine, anche dopo aver venduto la corte, nel 1985, ai Cipolla.

IL REDUCE DI CEFALONIA

Il capostipite della famiglia Cipolla era originario di Dovera e si chiamava Luigi: uomo della fine dell’Ottocento, morì nel 1936 a 46 anni per una malattia che prima fu sottovalutata, poi dichiarata incurabile. Il defunto lasciava la moglie, Maria Viviani, e sette figli, di cui il più grande di soli 14 anni; oltre ad un contratto d’affitto alla cascina Gallico di Barbuzzera, con ottanta pertiche da condurre.La vedova aveva un carattere indomito: il dolore non la piegò. Non era facile andare avanti da sola con tutti quei marmocchi: con l’esempio li crebbe in educazione e in virtù; due ragazze divennero suore dell’Istituto San Paolo. Il figlio più grande, Giuseppe, impiegò un attimo a crescere e a divenire uomo: dalla madre imparò ad avere orgoglio, a sapere affilare le unghie. Fu questa una dote che gli servì nella vita e che lo mise nella condizione di salvare la pelle in drammatiche circostanze. Giuseppe Cipolla fu un reduce di Cefalonia: le pagine di storia di quello scontro bellico con i tedeschi se da un lato esaltarono la forza morale e la dignità degli italiani, dall’altra posero l’accento sulle insensate crudeltà della guerra. La Divisione Acqui, costituita da 12.025 uomini, fu annientata: perirono 9.640 soldati italiani. Poco più di tremila quelli che riuscirono a salvare la pelle. Fra questi c’era Giuseppe Cipolla.I ricordi della strage tedesca di Cefalonia venivano sempre in mente a Giuseppe. Per due volte era finito davanti al plotone d’esecuzione: aveva sentito intimare l’ordine di fare fuoco. Sapeva che le armi erano collocate su una collinetta e per sfuggire alle mitragliate occorreva correre a perdifiato verso la base della montagnola. Essere veloci più di una lepre. I tedeschi si divertivano con quelli che scampavano alla morte: piaceva loro vedere il terrore negli occhi, la sensazione di essere morti anche se vivi. Giuseppe correva e si salvava. Allora, gli rinviano l’appuntamento con le pallottole del destino. Giuseppe era un uomo di fede: portava sempre con sè l’immagine della Madonna del Pilastrello di Dovera. Così aveva smesso di chiedersi dove trovasse la forza di resistere e di fuggire. Si sentiva un miracolato. Protetto dall’amore della Madonna.

NEL LODIGIANO

Allora forse non è un caso che i Cipolla da Dovera finissero poi ad Arcagna, dove il culto della Madonna ha radici profonde. Profondissime.Nel 1949 Giuseppe sposò Maria Borromeo di Spino d’Adda. Nel 1956 la famiglia Cipolla si trasferì alla corte Ca de Cani, trecento e rotte pertiche d’affitto. Oltre all’attività cerealicola, l’azienda aveva una buona stalla di vacche da latte. Giuseppe Cipolla aveva un preciso indirizzo: se solo può un bravo agricoltore cerca sempre di accrescere le proprie capacità produttive. Gli interessava il lavoro concreto: le produzioni, il benessere degli animali, la qualità del latte. Mentre detestava tutto quello che cominciava a caratterizzare l’agricoltura: leggi, regolamenti, pratiche burocratiche, timbri. Il regime delle quote latte gli procurava prurito. Gradualmente cominciò a rallentare se non l’impegno, la sua proverbiale passione per il lavoro.Da qualche anno era stato affiancato dal primogenito Luigi, uomo silenziosissimo, ma esperto come pochi nel proprio lavoro. Anche Francesco, il narratore di queste vicende famigliari, finita la scuola per geometri subentrò in azienda: lui aveva avuto la fortuna di avere come docenti il professore Ugo Spada, bresciano, insegnante di estimo ed economia, sepolto oggi a Montanaso Lombardo, e monsignor Bassiano Staffieri, originario di Zorlesco, insegnante di religione, già vescovo di Carpi, oggi vescovo emerito di La Spezia. Professori che l’avevano appassionato allo studio e che gli hanno lasciato il culto per i libri, per le date, per la ricerca e per la storia.Francesco ha sposato Luigina Pasini di Montanaso Lombardo. La coppia ha avuto due figli: Vittorio e Giovanni, oggi poco più che ventenni, entrambi coltivatori diretti, caratterizzati da una volontà ferrea e da grande passione per il lavoro, doti fondamentali per chi gestisce un’azienda agricola a carattere esclusivamente famigliare. I due giovani, oltre che nel padre, hanno un riferimento fondamentale nello zio Luigi: è lui il perno ed motore della cascina Ca de Cani, l’uomo che riesce ad insegnare anche attraverso i suoi silenzi.

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