Come si direbbe dalle mie parti, nel sud più profondo dell’isola di Sicilia, non c’è un coccio di pero neanche a cercarlo con il lanternino. In un pomeriggio che rivela sul cielo un ammasso di nuvole, presaghe di pioggia, vado a Castiglione d’Adda e percorro un angolo di terra che ha sempre accarezzato il mio cuore di delicate suggestioni: quello dove il paese ha una biforcazione, e a sinistra si va verso un antico molino, mentre a destra si scende lungo la campagna che conduce alla corte Vinzaschina sino a lambire le prime zolle del Cremonese.
nell’antico arboreto
Sono ospite, appunto, alla cascina Pero. Il toponimo della corte pare derivi dalla gran quantità di alberi da frutto, pere in particolare, che rendevano molto ricca di arboreti questa zona. Tanto che, nel passato, gli abitanti di Castiglione d’Adda quando dovevano festeggiare la sagra, con le tradizionali e gustosissime crostate alle pere, si riversavano qui in massa per fare incetta di questo frutto. Ne è rimasto soltanto il ricordo.
Questa cascina conserva tante altre memorie. Come quella struggente e delicata di una donna che aveva il proprio figlio al fronte, nella guerra ’15-’18. Una notte la donna percepì un tramestio all’esterno, sull’aia. Pensò che fossero i rami degli alberi, sospinti dal vento, a graffiare le ante delle finestre. Tese meglio le orecchie e udì bussare alla porta della sua casetta. Allora, ancora assonnata, e spaventata, scese giù dalla propria camera e apri l’uscio. Proruppe in un pianto di gioia perché davanti alla porta c’era suo figlio, che chissà da quale luogo e per quali strade, era riuscito a tornare dalla guerra, ed ora stava lì, sorridente, senza parlare. Alla sua mamma, pur sporco e trasandato, fortemente provato dal conflitto bellico, il figlio apparve bellissimo. Attizzò il fuoco al camino: piangeva, e rideva, e portava le mani sul viso del ragazzo, accarezzandolo e riempiendolo di baci. La donna si svegliò di soprassalto. E quel sogno le apparve subito anticipatore di una disgrazia. Tenne il segreto e il malumore per sé. Ma il tempo fu veloce come il vento: la mattina successiva a quella notte arrivò una lettera del Comando militare in cui era riportata la notizia della morte del figlio avvenuta il giorno prima. Chissà come si chiamavano questa donna e il suo figliolo: è un episodio vecchio ormai quasi un secolo. La memoria si perde, non sa mantenere la pietà del ricordo.
il capostipite e i suoi eredi
Da quasi mezzo secolo la cascina Pero è proprietà della famiglia Felisi. A raccontarmi le vicende di questa famiglia e l’evoluzione dell’azienda agricola è la signora Anna Rosa Provini, vedova di Luciano Felisi. La signora ha gli occhi azzurri, chiari come un cielo di primavera che si lascia abbacinare dai raggi mattutini del sole. È una donna cui certe asprezze della vita hanno lasciato il segno: ma invece di piegarla, l’hanno fortificata; ne intuisco il cuore buono, la tolleranza di chi ha conosciuto ogni piega dell’esistenza, divenendo nel tempo guardinga, attenta, ferma, irremovibile, decisa a non cedere mai sulle proprie ragioni, neanche di un millimetro. I Felisi erano originari di Bertonico. Qui il capostipite possedeva un piccolo pezzetto di terra, giusto un fazzoletto: egli aveva una gamba di legno, e quindi la sua “scumagna” era quella di “Gambin”; anche le sue generazioni future mantennero questo soprannome: e tutti i Felisi, per moltissimi anni, furono chiamati “Gambin”.
Pur con una sola gamba, Gambin sulle zolle di terra mostrava un’agilità straordinaria. Aveva trasmesso la passione per l’agricoltura al figlio Carlo. Quest’ultimo era sposato con Zoppi Luigia detta Bigina, da cui aveva avuto otto figli, tutti maschi. Quel piccolo fazzoletto di zolle, allora, non poteva essere considerato come unica fonte di reddito per una famiglia così numerosa. Carlo Felisi aveva allora avviato un’altra attività, svolgendo il mestiere di ciabattino, proprio nel paese di Castiglione d’Adda. Nella sua bottega si riparavano scarpe e si realizzavano eleganti ciabatte, di pelle buona e resistente, con il tacco appena appena accennato. Ogni donna del paese voleva le ciabatte, utilizzate alla domenica e nelle sere di festa: si trattava di calzature magari rudimentali, ma che erano ugualmente molto ambite. E Carlo Felisi era un artigiano bravo; le donne andavano da lui quando volevano acquistare le ciabatte. E così Carlo cominciò a mettere i soldi da parte: e li investì , inizialmente, per allargare la propria bottega. Essa si trovava in un cortile, e lui, acquisendo nuovi locali, cominciò ad ampliarla. Solo che, in una di queste rimesse, invece di collocare scaffalature per le nuove ciabatte, realizzò una stalla, con rastrelliere, scanalature, greppie, e letti per le bovine.
i legami con la terra
Carlo Felisi così riallacciò i legami con l’agricoltura, passione di cui non si era mai liberato. Affidò alla moglie Bigina la gestione della vendita delle ciabatte, e lui si dedicò alle bovine: vendeva il latte passando di casa in casa. Lavorando instancabilmente, riuscì a far studiare e a sistemare tutti i suoi figli: due divennero medici, uno andò a lavorare come ragioniere all’Ufficio delle entrate, un altro con lo stesso diploma alla ditta Snam, uno trovò impiego in banca, un altro figlio proseguì l’impegno di ciabattino, e due si dedicarono all’agricoltura. Questi ultimi erano Luciano e Luigino. Il padre per loro aveva acquistato nel 1951 la cascina Pero. I due ragazzi si misero in società e avviarono l’azienda agricola, riuscendo nel volgere di poco tempo ad ampliarla, sia sotto il profilo zootecnico che della terra da coltivare.
La stalla divenne di una certa consistenza: tra vacche in lattazione e bovine d’allevamento vi erano oltre una sessantina di capi; mungitori di lungo corso alla cascina Pero furono Guerrino Meazzi e Piero Dadda, mentre più tardi si aggiunse Ugo Pellegrini; altri lavoratori furono Giovanni Malvisi, che prestava lavoro sia in stalla che in campagna, e Angelo Bettinelli, conosciuto universalmente come Nini. Luciano Felisi era nato nel 1925. Non c’è più da tanti anni, essendo morto improvvisamente nel 1972; la sua dedizione per le attività agricole era totale: con indiscussa versatilità sapeva passare dalla stalla all’aratura. Sul lavoro non si risparmiava ed in un paio di occasioni stava per rimettervi la vita: una volta prese un calcio da un cavallo, che lo costrinse ad un ricovero ospedaliero, ed in altra occasione, catapultato da un movimento ad elastico di un albero che stava tagliando, terminò semisvenuto dentro al canale Muzza. Non era, però, un uomo imprudente. Tutt’altro: le sue maggiori qualità erano la calma e la capacità di riflettere. Ciò non gli faceva venire meno un forte senso di praticità. La sua concretezza mi pare stridesse rispetto ad una sua fotografia, che lo ritraeva con uno sguardo da sognatore. Quell’istantanea la fece il giorno che conseguì la patente. Forse era solo contento.
un incontro “fatale”
La signora Anna Rosa insiste nel dire che era davvero un uomo con un forte senso pratico. Lei, invece, veniva da una famiglia assai distante dall’agricoltura. I suoi genitori avevano una rivendita di formaggi a Codogno; da ragazza aveva frequentato le classi medie e conseguito un diploma di stenodattilografia. Aveva saputo di alcune offerte di lavoro a Milano, ma il padre si era fermamente opposto: treni e autobus rappresentavano un’incognita, non si sapeva quel che vi potesse accadere e soprattutto quali incontri potessero capitare; Milano poi sembrava una città pericolosissima, e così proibì alla sua figliola di andarvi. Non gli andava neppure bene che lavorasse presso studi legali della zona, che pure volevano avvalersi di segretarie. Alla fine il padre le propose di lavorare presso la rivendita della famiglia, e la ragazza accettò. Ma un giorno una sua zia le chiese se poteva andare ad aiutarla nella gestione della propria merceria, che si trovava a Castiglione d’Adda. Anna Rosa accettò, dando l’impronta definitiva al proprio destino. Fu qui, infatti, che incontrò Luciano Felisi.
I due avevano una forte differenza d’età: 32 anni lui, 19 lei. Ancora una volta suo padre brontolò e pose divieti, ma questa volta con poca convinzione in quanto si accorse immediatamente che tra i due si trattava proprio d’amore, e di quello vero. Eppure, al primo incontro, almeno per la signora non era scoccata alcuna scintilla: lei accompagnava lo zio nello studio medico di uno dei fratelli Felisi e per accedervi occorreva passare attraverso la casa d’abitazione, e lì aveva scorto Luciano, con addosso gli abiti di lavoro, un cappellaccio in testa, la barba lunga e un fare noncurante e svogliato. Al secondo incontro, lui invece era già sbarbato e galante. Luciano e Anna Rosa ebbero tre figli: Giuseppe detto Beppe, Sara e Rosanna.
una donna forte
Alla morte del marito, la signora Rosa mostrò quale forza interiore avesse: mise una barriera al dolore del proprio cuore, e si dedicò ai propri figli e all’azienda agricola, senza mai far trapelare momenti di stanchezza, sfiducia od insicurezza. Non avrebbe mai e poi mai mollato: per dare un futuro ai propri ragazzi e per onorare la memoria del marito. Rimanendo a collaborare con il cognato Luigino, fin quando i figli non divennero maggiorenni, s’impratichì d’agricoltura. Nel 1984 i due nuclei famigliari hanno deciso concordemente di dividersi. Il ramo d’azienda che era di Luciano viene oggi condotto da tutti i famigliari, anche se le donne della famiglia delegano Beppe a seguire tutte le attività. In azienda oggi viene privilegiata la coltivazione del mais. Beppe poi è un esperto di meccanica, in grado di mettere in moto un trattore dal nulla, assemblandone i pezzi. Nella vecchia stalla ha attrezzato un angolo ad officina meccanica. Si capisce che, avesse più tempo, quello sarebbe il suo regno. È un uomo che rivela un’energia straordinaria: all’impegno d’agricoltore, ha affiancato quello di consulente finanziario presso un istituto di credito di Milano. Conduce anche un’altra azienda agricola, appartenente alla moglie, a San Fiorano. Non conosce soste. Sa essere affabulatore, instancabilmente prodigo di parole, e al tempo stesso silenziosissimo. Tace, ad esempio, quando sua mamma parla del marito. Penso sia una profondissima forma di rispetto verso i tanti sacrifici affrontati dalla signora Anna Rosa e un modo di riannodare i legami con la figura paterna che tanto deve essergli mancata: in quei silenzi, c’è tutta una relazione che il destino ha imposto non si vivesse.
Ma le radici dei “Gambin” sono ben robuste, radicate nel tempo, e il futuro svela, ogni giorno, nuove cose ed antiche tracce.
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