A San Fiorano nel podere del “ramiè”

Il vivaio di oggi discende dalle serre che furono dei fratelli Polenghi

Vado avanti per suggestioni; da tempo sono convinto che le atmosfere di San Fiorano siano rivelatrici delle stagioni: prima che altrove, qui s’increspano e s’infiammano rutilanti le foglie in autunno, s’imbiancano immediati i coppi dei cascinali negli inziali rigori dell’inverno, e come in un perenne cantico d’amore s’ingentiliscono i primi audaci boccioli della primavera, e risaltano prorompenti, uniche e splendenti, le luci dell’estate.Non fosse sufficiente quest’aurea di magia che avvolge San Fiorano, ho oggi in tasca una nuova storia, cominciatasi qui e diffusasi, nel passato, in tanti angoli del mondo. A raccontarmela è stato il professore Marco Raja, erede e depositario di fondamentali testimonianze.

Le origini dei Polenghi Le vicende, che molti conoscono, sono relative alla famiglia Polenghi, quella che realizzò la mitica, storica, universalmente rimpianta industria lattiero casearia della Polenghi Lombardo. Questa famiglia, di cui oggi vi è un’ultima anziana discendente che continua a vivere nel territorio lodigiano, ha vantato le proprie origini nella Bassa sin dal secolo Seicento: c’è chi dice che il cognome Polenghi si riferisse ad una famiglia che viveva lungo il Po: giusto appunto, Po-lenghi.La memoria del professore Raja risale alla figura di Carlo Polenghi, nato nel 1810; egli, piccolo ma facoltoso possidente, produceva già i primi prodotti caseari e li andava a vendere direttamente a Milano, con tanto di carrozza guidata dal cocchiere in livrea.Coloro che impressero una fondamentale svolta all’attività imprenditoriale furono però i suoi due figli: Pietro, nato nel 1852, e Paolo di sette anni più giovane. Senza mai tralasciare la piccola realtà imprenditoriale di famiglia, nel cuore di San Fiorano, cominciarono ad espandere i loro interessi: nel 1870 inaugurarono a Codogno un’azienda rivolta alla produzione di burro e formaggi; e due anni dopo erano già nel cuore della City di Londra. Negli anni successivi, inaugurarono altre industrie, la più rinomata a Lodi, dove si misero in società con i fratelli Antonio ed Egidio Lombardo, realizzando appunto la storica “Polenghi Lombardo”. Ebbero punti vendita in tutta Europa, e in Africa, e in Australia, e in Asia.Pietro e Carlo erano tra loro molto uniti, ma la vera mente era il secondo, talmente apprezzato che per decenni rivestì il ruolo di presidente della Camera di commercio italiana a Londra. A dire del professore Raja, Paolo Polenghi era un autentico genio: uno a cui non solo le idee venivano a getto continuo, ma che possedeva anche la capacità di pianificarle e realizzarle senza mai perdere un’opportunità.Quando, nel 1879, Paolo decise di investire a Londra, fece un lungo viaggio in treno con un suo tecnico e gli ordinò di scrivere in un notes i nomi delle cittadine dove venivano effettuate le fermate: lì avrebbero costruito depositi di ghiaccio, dove conservare il burro e gli altri formaggi, al fine di mantenerli integri. Gli stabilimenti aziendali dei Polenghi non erano semplici fabbriche o uffici commerciali. Ciascun edificio era una reggia; si trattava davvero di luoghi principeschi. Esisteranno nel mondo ormai pochissimi esemplari del fiabesco libro La Polenghi Lombardo, industria del latte, tradotto in inglese, francese, spagnolo, tedesco: si tratta di un volume d’immagini, dove l’ambiente più crudo, il macello per i maiali, equivale ad un salone di un castello da favola.

Un’idea “verde” L’impresa industriale e commerciale dei fratelli Polenghi continuava ad essere inarrestabile e quanto mai diversificata. Il cavaliere Pietro si dedicava agli affari italiani, e il fratello Paolo a quelli esteri. Quest’ultimo, vivendo stabilmente a Londra, aveva preso ad apprezzare i giardini delle ville residenziali ed i vivai inglesi e, rientrato a San Fiorano, vista l’enormità degli ettari che avevano a disposizione per la propria azienda agricola, propose al fratello di realizzare un paio di serre dove coltivare le piante più belle che potessero esservi: fu così che a San Fiorano s’importò la coltivazione della Boehmeria nivea, più nota come “ramiè”, pianta tropicale proveniente dall’Oriente, forse dall’arcipelago malese o dall’Indocina, e utilissima anche per la produzione di fibre ad uso industriale. Questo arbusto esotico, in un ambiente caldo ed umido, tipico della pianura padana, si adattò benissimo. Dall’intuizione di Paolo, allora, dalla sua ammirazione per i garden inglesi, nacque il Podere San Fiorano, quello arrivato sino ai giorni nostri.Paolo Polenghi, oltre alle attività economiche, era indaffarato in quelle di cuore: essendo ricchissimo, oltre che di bell’aspetto, pare avesse fama di rubacuori; ebbe una lunga relazione con un’attrice inglese, e finanziò, per amore suo, diverse riviste teatrali in cui lei era la protagonista. Quando gli venne a noia, la mollò, e la sventurata, trovatasi senza fidanzato e mecenate, ne soffrì a tal punto da suicidarsi. Paolo Polenghi fu colto da rimorso e, affinchè gli rimanesse caro il ricordo, e alleviasse in qualche modo il proprio dispiacere, volle portare le spoglie della donna nella cappella della propria famiglia, al cimitero di San Fiorano. Qui trovò l’opposizione del prevosto, che non voleva benedire una protestante, quale s’era professata in vita l’inglese, e per giunta suicida. Ma con una lauta offerta di Paolo Polenghi, ad espiazione delle colpe della defunta, l’intransigenza del prete venne meno.

Un’ingente eredità Invecchiando, Paolo Polenghi cominciò a porsi il dilemma riguardo a chi lasciare l’ingente patrimonio di famiglia; egli aveva una figlia, che aveva frequentato poco, per non dire nulla, relegandola nel miglior istituto di suore di Brescia. La nominò sua erede universale.La ragazza si chiamava Paola e quando ereditò, era già bella in fiore, sposata con l’avvocato Emilio Botturi. Allorché scesero a San Fiorano, i coniugi Botturi apparvero increduli: non pensavano minimamente a quanto potessero essere vaste le ricchezze che erano giunte loro.L’avvocato Emilio Botturi non era certo uno sprovveduto e, con poche decisioni, consolidò quel patrimonio; investì nel Sud Italia, realizzando industrie di conserve alimentari, pomodori in particolare, portando con se da San Fiorano l’ingegner Colombani e tre fratelli Raja; mentre a capo del Podere San Fiorano nominò quale direttore un altro dei fratelli Raja: Antonio, padre del professore Marco, testimone di questa storia. Tutti i Raja erano persone stimatissime nella Bassa: il capostipite, Luigi, era stato segretario della marchesa Pallavicino ed aveva frequentato personalmente Garibaldi. I coniugi Botturi ebbero una figlia, Paolaemilia, l’unica discendente della gloriosa famiglia Polenghi.

Un acquisto improvviso La gestione del Podere andò avanti e la sua storia è evoluta, in un certo senso, anche per casualità. La notorietà del vivaio era molto diffusa ed un giorno, si era nel 1970, vi si recò un acquirente in cerca di arbusti per la propria maison. Questi era Alberto Cipelletti, in quegli anni industriale con interessi diffusi in vari settori. Entrò che intendeva fare man bassa di piante, ed uscì che aveva acquistato l’intero Podere con i suoi duecento ettari.Tendenzialmente - racconta lui con fare schivo, ma con una saggezza che è espressione della sua maturità - per diversificare ulteriormente gli affari. Ma a me piace pensare che Alberto volesse riannodare le fila con le sue origini: i nonni del lato materno, gli Arbasi, di Maleo, nel cui ramo famigliare vi erano stati pure i fondatori della Cassa rurale, avevano un’attività di piccolo commercio di verdure; ogni giorno all’alba il vecchio Arbasi si avviava ai mercati e ad Alberto, allora bambino, era capitato sovente di accompagnarlo.La terra è un dono del Signore - dice Cipelletti - ed è l’unico bene che non diminuisce: può cambiare il suo utilizzo, ma la superficie resta quella. L’investimento sul Podere gli apparve dunque una cosa sicura. Inizialmente ne seguì le sorti da lontano, affidandolo alle cure di Luigi Raja. Poi, sempre le casualità della vita hanno riavvicinato l’azienda alla famiglia Cipelletti. Alberto ha due figlie: Eleonora ed Emanuela. La prima ha sposato Tomaso Recchia, diplomato in agraria, con un forte spirito campagnolo: la natura è la passione di questo ragazzo, classe 1974. I Cipelletti l’hanno coinvolto nell’azienda di famiglia: ad Alberto brillano gli occhi quando parla del genero, lo stima come fosse suo figlio.

Un gioiello di famiglia Il Podere San Fiorano, allora, non è solo un affare per tentare di fare reddito, ma il vero gioiello della famiglia Cipelletti. Rispetto al passato la struttura, che ha definitivamente abbandonato l’impegno zootecnico, è oggi rivolta quasi totalmente alla realizzazione di giardini, mentre la coltivazione è rimasta marginale. Vi sono comunque dieci ettari destinati al vivaio ed una sessantina di varietà botaniche. Indubbiamente oggi, anche per via della crisi economica generale, sono minori le dimore private che vantano estensioni significative di giardini, ma al Podere si è in grado di soddisfare qualunque tipo di soluzione, curando anche appezzamenti minuscoli, rendendoli nelle varietà delle scelte delle piante, veri e propri eden.Questo è, d’altra parte, un luogo di autentiche tradizioni, e non solo per il “ramiè”. Nel passato vi si coltivava pure il ligustro pendulo, un arbusto ornamentale e al tempo stesso rustico, molto resistente. Non c’è intenditore della zona che non consideri il Podere San Fiorano quale “genitore”, o prozio alla lontana ma di quelli nobili, di tutti gli altri vivai.E Tomaso Recchia, con la sua competenza, accompagnata da gesti semplici, concreti ed umili, come si apprezzano qui nella Bassa, è il prosecutore ideale per mantenere una tradizione che ha radici robuste, ataviche, irraggiungibili, nella storia di una piccola comunità, ma tali da avere lambito più parti del mondo.

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