Nei secoli, la frazione di San Grato aveva avuto tre motivi di lustro: il bellissimo oratorio dedicato alla Natività di Maria Vergine; un grandioso stabilimento - l’aggettivo è dello storico Giovanni Agnelli - per la pilatura e brillatura del riso; e una cascina con annessa segheria, giusto alle porte della frazione.

Quest’ultima realtà era la corte della famiglia Arfani. Il capostipite, Achille Arfani senior, era un agricoltore che aveva puntato tutto sul legname. Aveva preso qualche pezzo di terra dove piantare pioppeti a distesa, ma ancora più redditizia aveva trovato la scelta di andare a ritirare piante ed arbusti degli agricoltori della zona. Sulla via Emilia era tutto un transitare di carretti che conducevano fusti di piante. In segheria si lavorava il legno, che poi veniva consegnato ad una fabbrica poco oltre Milano, dove realizzavano fiammiferi in serie.

Achille Arfani senior possedeva il senso degli affari e la convinzione che quell’impegno agricolo, pur così specifico, dovesse durare all’infinito. Viceversa, è sì rimasto nelle generazioni future un forte senso di appartenenza al mondo agricolo, ma l’impegno famigliare ha preso direzioni differenti.

segheria addio

Già i figli di Achille senior, che erano nove in tutto, cominciarono a scaricarsi vicendevolmente l’onere su chi toccasse proseguire il lavoro in segheria. A ciascuno di loro subentrava un’idea diversa: c’era chi si era spostato a Massalengo, dando vita ad un forno; chi aveva avviato un commercio di generi alimentari; chi s’era trasferito a Milano....

Gaetano, di cui adesso si seguono le tracce, aveva deciso di trasferirsi alla Muzza Piacentina, frazione di Cavenago d’Adda, dove gestiva un locale ad uso osteria, posteria e, ma solo la domenica pomeriggio, balera all’ultima moda. Erano i primi del Novecento. Egli aveva sposato Luigia Bellocchio, anch’ella della frazione San Grato di Lodi, figlia di un fruttivendolo che, vendendo al minuto, s’era fatto conoscere da tantissima gente per la sua onestà.

L’osteria alla Muzza Piacentina funzionava bene, ma la posizione non piaceva a Gaetano Arfani: troppo a ridosso della via Emilia, e con poche possibilità di svago per gli avventori. Ad un certo punto, apprese che a Caviaga, altra bella e suggestiva frazione di Cavenago d’Adda, si rendeva libera una cascinetta; e poiché Gaetano era un vero uomo d’affari, non si lasciò scappare l’occasione. Più ancora della grandezza della cascinetta, e più ancora della località romantica e rurale della frazione, lo convinsero, attigui alla corte, due campi per le bocce: appunto, quello svago che cercava per i suoi clienti.

cuoco e contadino

Ma il signor Gaetano non era certo uomo da accontentarsi di fare l’oste, limitandosi a mescere vino. Non aveva dimenticato, infatti, le sue tradizioni agricole, ed allora, nella cascinetta, conosciuta a quel tempo come Cortile Arfani, realizzò una piccola porcilaia, dove teneva quattro, cinque maiali all’ingrasso, e prese pure una bovina e un cavallino, oltre a numerosi altri animali di corte. Gaetano divise la possessione in più porzioni: da un lato attrezzò l’osteria, con vini e cibi caldi; nelle stanzette attigue allestì una posteria, dove vendere il salame da lui prodotto e altri generi alimentari; sul retro, invece, vi era la zona agricola, stipata di legna; e dalla parte opposta il macello dove Gaetano svolgeva la sua attività di norcino.

Bel personaggio, questo Gaetano Arfani: alto, magro, calvo, gran fumatore, ma solo di sigarette Esportazione senza filtro, quelle che sul pacchetto contenitore avevano disegnato un galeone con le vele in poppa; un uomo che non temeva mai di fare l’affare più lungo delle proprie gambe e investiva anche quando era a corto di denari; e che, andandogli bene gli affari, non aveva reticenze nell’esibire il piacere di godersi la vita: sempre elegante, uno dei pochi a possedere l’automobile, ma di fondo era rimasto una persona semplice, apprezzata dalla gente per la propria affabilità, lontanissima da qualunque forma di esibizionismo sfacciato.

un uomo pacifico

Gaetano e Luigia avevano avuto quattro figli: Achille, Fiorenzo, Wilma e Luigi. La ragazza sposò Rino Vanelli, un agricoltore di Milano; Luigi prima lavorò al macello del genitore, poi andò come dipendente presso alcuni supermercati. Fiorenzo era una persona originale; e Achille, che era nato nel 1926, fu quello che proseguì il lavoro del padre.

Una delle maggiori fortune di Achille Arfani fu quella di avere avuto a fianco nella vita una donna di polso: Luigia Monico, originaria di Caviaga, figlia di un mugnaio del Molino Contarico di Lodi.

Luigia, quando non era ancora sedicenne, conobbe Achille e rimase molto colpita da quel ragazzo garbatissimo, che aveva in mente solo tre cose: cacciare, pescare, e tifare per l’Inter. Ciò che l’affascinava, oltre ai modi, era la tranquillità con cui Achille affrontava la vita: lui non doveva svegliarsi all’alba per andare nei campi o in fabbrica; non aveva mai fretta perché possedeva una potente moto per raggiungere qualunque luogo. Ma superate le apparenze, la signora Luigia squadrò bene il suo uomo e gli spiegò che il lavoro nobilitava l’uomo più delle proprie passioni.

Achille cominciò allora a lavorare, pur non osando mai quanto al padre relativamente alla conduzione degli affari: fare prestiti con le banche lo terrorizzava, ed agli investimenti futuri preferiva la moneta contante. Si accontentò di quello che aveva, e che comunque non era poco.

Fondamentalmente Achille Arfani era un uomo pacifico, eppure da giovane gli capitò di trovarsi nei guai. Una volta in osteria nascosero un cugino della moglie, un giovane che, convocato a militare, aveva deciso di disertare. Qualcuno fece la spia e si presentarono i tedeschi. Misero sottosopra i locali. Ruppero letti ed armadi. Ovunque cercarono tranne che dentro una minuscola cassapanca dove s’era nascosto il disertore. Così i tedeschi se la presero con Achille, che allora era appena diciassettenne e lo portarono al comando, minacciandolo che lo avrebbero arruolato e spedito in guerra. Il padre Gaetano a bordo della sua automobile, una mitica Bianchina Sw, seguiva la camionetta militare, e dovette fare uso di tutta la sua diplomazia affinchè l’incidente si ricomponesse.

un’ottima cucina

Per quanto Achille avesse un’indole che privilegiava la pigrizia, alla fine apprezzò il lavoro, divenne un oste competente ed un cuoco molto capace. Negli anni Sessanta, il Cortile Arfani ebbe alcune modifiche: l’osteria s’ingrandì, e la posteria, ridimensionata, fu spostata nel retro dei locali riservati agli avventori.

L’uva veniva acquistata a Rovescala; a dare una mano ad Achille per la pigiatura provvedevano i mungitori delle cascine vicine: lui li ricompensava organizzando una cena e regalando, a maturazione avvenuta, un bottiglione di vino a ciascuno.

La cucina di Achille era molto apprezzata: i suoi piatti rispecchiavano la forza della sua proverbiale pazienza, appresa durante le battute di pesca e di caccia. La gente veniva appositamente, anche da Milano, per assaggiare la lepre in salmì, il cui profumo, durante la bollitura, si espandeva per tutta la frazione. Ercole Marelli, fondatore dell’omonima ditta Magneti Marelli, qui era di casa, e portava sempre con sé alcuni colleghi della Fiat: dai soprabiti che indossavano si capiva che era gente importante, di rango. Il locale era frequentato dagli affittuari della frazione e della vicina Cavenago d’Adda. La domenica, invece, era come un tacito accordo, i conduttori non si vedevano, e si presentavano i contadini: il vociare era assordante, e inevitabilmente alla sera occorreva mettere qualcuno alla porta.

Nel ricordare gli episodi di rissa e di grida, la signora Luigia è oggi indulgente: «In quelle circostanze, l’uomo non c’era più - mi spiega -, gli era subentrato il bevitore; e quando si beve non si è più se stessi: si diventa altre cose; allora io mi nascondevo in una stanza, mentre mio marito, senza mai venir meno alla sua pacatezza, pensava a chiarire le idee a chi alzava troppo il gomito. Sono stata cinquantacinque anni dietro il banco dell’osteria, e di gente ne ho vista passare davvero tanta...».

una famiglia impegnata

Ad Achille davano una mano i figli: Dario, Vincenzo, Daniele, e anche Giusy, che ora non c’è più, e faceva la maestra. I maschi s’impegnavano tutti: c’era il rito dell’imbottigliamento, la consegna delle casse d’acqua e di vino presso le abitazioni della frazione, e pure delle bombole a gas. Ma l’unico che aveva per davvero il dna degli Arfani, riguardo alla cucina, si rivelò Daniele: l’oste di famiglia oggi è lui, aiutato dalla moglie Anna; che già a Paullo, lavorava nel settore gastronomico, ma un’osteria è una cosa diversa: è come quando si osserva il panorama da un binocolo, ed ogni cosa appare vicina, e così è qui, dove si sente palpitare il cuore della gente, ed ognuno che arriva ha una storia da raccontare, e stasera tutti gli avventori parlano del gelo, e ciascuno interpreta le intenzioni dell’inverno per quello che gli pare.

Daniele, che è del 1967, resta forse più disincantato, ma come il padre ha il gusto per la cucina; ha chiesto aiuto ad uno chef professionista e ora ammoderna i piatti dell’antica tradizione culinaria: ad esempio, il cotechino non solo con le lenticchie ma pure con la fonduta e i risotti in particolare.

Gli piace che le massaie della frazione, che certo riguardo ai fornelli hanno consolidate esperienze, spesso entrino in osteria per chiedergli consiglio su come preparare una pietanza: è da questi gesti che comprende come abbia conquistato la stima nel paese. Nelle frazioni rurali si è spietati: non si fanno sconti a nessuno, e Daniele la fiducia se l’è conquistata direttamente, cercando di ritagliarsi uno spazio proprio, che non fosse l’eco del ricordo dei suoi avi.

Dopo la morte di Achille, avvenuta nel 2005, il Cortile Arfani ha definitivamente abbandonato le sembianza della vecchia cascinetta, e sulla piccola aia, lì dove c’erano la bovina e il cavallino, è stato ricavato uno spazio per accogliere altri commensali.

E tra una portata e l’altra c’è il piacere di fare due chiacchiere con Daniele: dalle sue parole si coglie l’amore per il proprio mestiere, e l’orgoglio di avere mantenuto, nel proprio animo, tutte le tradizioni della famiglia, comprese quelle agricole e rurali. Ed allora, per un attimo, finalmente, si ha la sensazione di fermare il tempo: con il gelo che, stanotte, ammanta ogni cosa, e un bicchiere di vino dentro al quale specchiare ogni frangente del proprio umore.

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