Le indicazioni erano chiare, eppure mi appaiono inverosimili: devo raggiungere la cascina Rubino (nell’Ottocento ancora denominato al plurale, Rubini, perché si trova fra tante robinie, nel fitto di un bosco), e ho la sensazione che il cartello stradale, conficcato di traverso sul percorso e per oltre la metà inclinato, mi stia portando da un’altra parte; sto infatti attraversando un suggestivo e strettissimo viottolo di campagna, che dal pianoro di San Colombano degrada sempre più in basso, quasi a lambire la riva del Lambro. La stradina è affascinante, costeggiata dagli altissimi fusti delle robinie, che lasciano filtrare appena i già tenui e pomeridiani raggi del sole. È un incanto della natura, che attraverso come trasognato, indeciso se è meglio trovare la meta o perdersi nei misteri della valle. In un appezzamento ci sono ancora robusti filari di viti: è una rarità in questo particolare riquadro di zolle, perché quando nei pressi costruirono il Consorzio Irriguo sparirono i vitigni. Dall’uva se ne ricava un onesto vino rosso da pasto; la qualità è definita come americana, simile a quella fragola, ma leggermente più secca.
dal mare alla terra
La cascina Rubino è proprio alla fine della stradina: sembra chiuderla, come un casello presso cui informarsi se è possibile procedere, tornare indietro, o fermarsi ad ascoltare la storia di Luigi Dalcerri, classe 1959, ma già agricoltore di lungo corso.
Luigi ha occhi indecifrabili: i loro colori cambiano, misteriosamente, secondo la luce; ora sono azzurri, poi grigi, screziati di un verde scuro, profondo. Richiamano certi mari notturni, dopo una giornata di sole e di bonaccia, quando il tempo improvvisamente cambia, e allora le acque si fanno tumultuose, presaghe di tempeste che nascono, visibili solo agli occhi più attenti, nel profondo degli abissi. Forse, c’è una ragione.
Il ceppo originario dei Dalcerri - racconta la tradizione di famiglia - pare fosse costituito da marinai liguri. Fu un Dalcerri, stanco di mare, che invece di raggiungere la città di Venezia, com’era inizialmente nei suoi propositi, decise di fermarsi in pianura, ad apprezzare il piacere della terraferma, e di una distesa, quella di terra, dove era possibile come nel mare scorgere l’orizzonte, ma rimanendosene quieti e tranquilli. A quel Dalcerri mancava terribilmente la voluttà delle onde, la salsedine sul viso, la vita rude e cameratesca dei marinai, ma dopo tutto c’era anche in campagna da scrutare il cielo per scorgere gli umori dell’indomani, e curare la terra ogni giorno come si lustrano prua e poppa di un’imbarcazione. Finì per restare in pianura.
un uomo metodico
Fu il figlio di quel primo Dalcerri marinaio a comperare la cascina Rubino di San Colombano al Lambro: guarda caso, si chiamava Colombano, e perfezionò l’acquisto nel 1907. La corte è semplice ed essenziale: la casa e, adiacente sul retro, la stalla con il sovrastante fienile.
Colombano era un uomo già distante dagli echi del mare, e si rivelò un bravo contadino. Ma quello che si manifestò vero agricoltore di razza fu suo figlio, Luigi, che era nato nel 1902, e che perciò alla corte Rubino arrivò che aveva appena compiuto i 7 anni, trascorrendovi tutta la sua vita. Dalla cascina si era allontanato soltanto due volte per motivi legati alle leva: quasi come un atavico richiamo di famiglia, fu mandato in una zona di mare, lontanissima dalla pianura padana, cioè in Sicilia, a Trapani. In un anno e mezzo di militare,
Luigi Dalcerri era un uomo metodico: lasciava la cascina per un’oretta soltanto, un paio di giorni alla settimana, per recarsi sempre nel suo solito, consueto posto, cioè presso la bottega del barbiere, in paese. La domenica, poi, immancabilmente, andava a messa, perché era un uomo pio e religioso, e ci teneva a non fare peccato. Alto di statura, robusto di peso, era un tipo silenzioso, che non si lasciava andare neppure quando beveva il vino, di cui era comunque un formidabile estimatore. Proprio riguardo al vino raccontava un episodio che gli era accaduto a Trapani, durante la leva: con alcuni commilitoni era andato in un’osteria, ma ciascuno di loro pensava che ad offrire fossero gli altri, e perciò nessuno aveva portato soldi. Svuotate le prime due bottiglie, i convenuti non trovarono il coraggio di dire all’oste che non avevano come pagare, e quindi restavano immobili ai loro posti: il padrone del locale, allora, pensando che volessero ancora da bere, portava altre bottiglie, e loro non sapendo che fare continuavano a mandare giù il vino, sin quando, armatisi di coraggio, gli confessarono che, al momento, non avevano come soddisfare il suo credito. Ora, da che il mondo è mondo, gli osti hanno sempre saputo leggere nel cuore della gente: e così fu fatto loro credito sino all’indomani.
un uomo di compagnia
Luigi Dalcerri era sposato con Paola Zambelli, anch’ella banina, della frazione Campagna. Era una donna, come al marito, religiosa e scrupolosa; aveva avuto modo di conoscere il dolore da vicino: ancora di pochi mesi, gli erano morti i genitori per via del tifo, a distanza di quindici giorni l’uno dall’altra, e Paola era stata allevata dagli zii materni.
Luigi e Paola lavorarono con grande impegno; la loro azienda agricola era caratterizzata dalla zootecnia e dalla coltivazione dei campi: in stalla vi erano una quarantina di vacche, ed il latte veniva dati ai piccoli caseifici del paese.
Luigi e Paola Dalcerri ebbero cinque figli: Giuseppina, che oggi vive a San Colombano al Lambro; l’unico maschio, che era della classe 1930, e che si chiamava come il nonno: Colombano; Adelaide; e due gemelle: Giovanna e Francesca.
L’unico quindi che proseguì l’impegno agricolo fu Colombano, che alle tradizioni di famiglia mostrò subito di tenere tanto. Il signor Colombano fu un agricoltore appassionato e determinato: portò a sessanta i capi dei bovini in mungitura, e isolata com’era la sua azienda agricola dalle altre, pure quelle più vicine, fu un convinto sostenitore della cooperazione, aderendo alla cooperativa Santangiolina, che sentì come una sorta di seconda famiglia.
A differenza di suo padre, che era taciturno, e che l’unica distrazione ce l’aveva o andando a messa o recandosi dal barbiere, Colombano era un autentico uomo di compagnia: simpatico, spiritoso, con un aneddotica sempre pronta da spendere su quella che era la sua più grande passione: la caccia. Così amava organizzare tavolate fra amici, tirare tardi, e raccontare di queste sue straordinarie battute alla ricerca di selvaggina, che cominciavano nel fitto del buio dell’alba e si concludevano nell’altro fitto dell’oscurità notturna.stalla addio
Il signor Colombano era sposato con Antonietta Dalcerri, ma malgrado l’identico cognome non erano parenti, neppure alla lontana. Dal matrimonio nacquero due figli maschi: il testimone di questa storia, Luigi, a propria volta con lo stesso nome di suo nonno, e Massimo, classe 1966. Quest’ultimo ha intrapreso una strada diversa, mentre Luigi ha proseguito con l’agricoltura, avendo nel padre un ottimo maestro: quest’ultimo gli spiegò che, il diploma di perito agrario, che Luigi aveva conseguito andandone fiero, non gli sarebbe servito a granché se non avesse imparato anche a conoscere la fatica, il lavoro concreto, a capire gli animali, e a sapere intervenire sulla terra quando era il momento opportuno, non un attimo prima, e neppure uno dopo.
Luigi Dalcerri ha sempre lavorato con spirito di volontà, mantenendo le vacche dal latte sino al 2007, quando si è dovuto arrendere davanti alla impossibilità di fronteggiare i costi senza un moderno rinnovamento di tutte le strutture, difficile da realizzare in una corte antica come quella della Rubino. Oggi restano tanti ricordi, di quando i furgoni della raccolta del latte non riuscivano neppure ad arrivare in cascina per la neve che isolava ulteriormente l’azienda agricola. Ma la vera minaccia non sono poi state le nevicate. Maggiori danni hanno fatto le esondazioni del Lambro: come quelle del 1994 e del 2000, con l’acqua che in poco tempo aveva invaso di oltre mezzo metro le stalle, e le bestie erano state portate di tutta corsa dai Giandelli, agricoltori limitrofi della cascina Campo, sul promontorio vicino.
Luigi Dalcerri ha sposato Luigia Agolini di Casalpusterlengo: la signora, digiuna di agricoltura, ha imparato in breve il mestiere agricolo, sostenendo il marito in ogni sua attività, dai lavori in stalla a quelli in campagna. I Dalcerri hanno due figli: Deborah, classe 1989, che lavora in un bar, e Christian, del 1992, dipendente in un macello di Graffignana.
Luigi Dalcerri, almeno al momento, è l’ultimo degli agricoltori della sua dinastia, partita dal mare e arrivata in campagna. Lui dice che il futuro è già scritto e che non augura ai figli, e ai giovani in generale, almeno se non garantiti da un patrimonio ingente, di proseguire nel settore agricolo: troppe difficoltà, costi esorbitanti, una crisi che non si riesce a fronteggiare se non riconvertendo l’impegno tradizionale in qualcosa di diverso, di distante da ciò che si è imparato. Certo, l’agricoltura dà ancora la possibilità di valorizzare il proprio impegno, e di preservare un valore fondamentale nella vita: cioè quello della libertà, di organizzare ogni giorno il lavoro come meglio si crede, di mantenere nel cuore i propri orizzonti. Che questi siano una striscia di mare o un filare di pioppi lontani, nell’inconscio di Luigi Dalcerri, certe volte, dopo tutto, è solo questione di labili, sfumati dettagli.
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