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Domenica 27 Novembre 2011
La nuova primavera di Domodossola
Dal Pavese alle porte di Sant’Angelo: il “viaggio” dei Migliazza
A Sant’Angelo Lodigiano si sta configurando una giornata attraverso luci penetranti, mentre si avvertono nell’aria le prime avvisaglie di freddo. Sono ospite della famiglia Migliazza, il cui ceppo originario è di Pieve Porto Morone, nel Pavese, mentre oggi ha radici sia a Sant’Angelo Lodigiano che a Borgo San Giovanni. I Migliazza, infatti, sono proprietari e conduttori, insieme ai signori Gandini di Varese, sia della cascina Domodossola, nel paese vegliato da Sant’Antonio Abate, che della corte Rita, nel luogo protetto dal martire san Giovanni.
una valenza spirituale
Entrambe le corti hanno rilievi architettonici di grandissimo interesse; sotto al patio della cascina Rita vi sono frammenti di un affresco che, secondo don Pierluigi Leva, parroco della nostra Bassa, nato a Cà dei Gerri da una famiglia di lavoratori agricoli, raffigurerebbe Francesco di Paola, fondatore dell’Ordine dei Minimi. Questa cascina ha una valenza fortemente spirituale, visto che era certa la presenza dei monaci olivetani, come ha approfondito Luigi Rugginenti, storico di Villanova Sillaro e che di questo paese è stato sindaco per molti anni. Possedimenti degli Olivetani erano, oltre alla già citata cascina Rita, la cascina Monte Oliveto, sotto la parrocchiale di Castiraga Vidardo, quella Cà dei Gerri, a quel tempo sotto la parrocchia di Lodi Vecchio, e la corte Cà dell’Acqua, nel comune di Borgo San Giovanni: tutte queste realtà dipendevano da quella principale di Villanova Sillaro.
L’elemento spirituale piace a Luigi Migliazza, la cui famiglia è stata sempre ancorata ad una profonda religiosità, attraverso una fede interpretata quale essenziale faro per illuminare la propria esistenza, vissuta nel segno dell’amore per Dio e nel suo timore.
il trisavolo
Ma il capostipite che la memoria dei Migliazza oggi ricorda fu un altro Luigi: uomo della seconda metà dell’Ottocento e che svolgeva l’attività di zoccolaio; nella zona di Pieve Porto Morone, infatti, vi erano ampi appezzamenti golenali, coltivati a pioppi: con quel legno, Luigi Migliazza senior ricavava le mitiche calzature di legno per i tanti contadini della zona. Aveva dovuto avere la pazienza di Giobbe, quel Luigi: uomo stimato e rispettato da tutti, si era chiuso nel più silenzioso dolore quando, in un colpo solo, aveva perso per una malattia improvvisa la moglie e il figlio che lei portava in grembo; ma la vita gli aveva concesso una seconda opportunità: e, quasi sessantenne, aveva sposato una donna di venticinque anni più giovane di lui: Teresa Bottani; lui era stato colpito dalla mitezza di questa donna e dai suoi profondi sentimenti religiosi; Teresa aveva origini di San Colombano: sua mamma, infatti, era una Lanzani, di quel ceppo cui era appartenuto anche il noto pittore Bernardino Lanzani.
La coppia ebbe due figli, ma la vita fu ancora una volta avara di gioie per Luigi senior, perché giunto ai sessantatre anni morì improvvisamente: gli orfani avevano rispettivamente quattro e due anni.
La giovane vedova si trovò in difficoltà; per sua fortuna, l’aiutò il fratello, Giovanni Bottani, che faceva l’agricoltore. Quest’ultimo divenne il tutore dei due bambini: lì seguì quasi con amore paterno, e insegnò loro il mestiere agricolo; quando poi i ragazzi divennero grandi, in grado di badare a se stessi, Giovanni Bottani scelse di fare il commerciante ortofrutticolo, abbandonando il lavoro sulla terra.
una vita di fede
Il nipote maggiore era Giovanni Battista Migliazza, papà del nostro Luigi. Egli era un vero Migliazza: interpretava la propria vita con un profondo senso della fede; crescendo, sotto la guida dello zio, era divenuto un “plandon”, cioè nel gergo pavese un piccolo coltivatore diretto: il numero massimo di bovine che riuscì a possedere fu di venti, e le mungeva tutte a mano, cosa che fece per tutta la sua vita, anche quando nelle stalle cominciarono ad essere introdotte le prime macchine. Giovanni Battista aveva sposato Sirina Massari, il cui nome le era stato dato per ricordare uno zio, fratello di suo padre, che era morto di tifo all’età di 17 anni e che si chiamava, appunto, Siro.
Sirina era figlia Francesco, che iniziò la propria attività come barcaiolo e che cavava la sabbia nel Po. Francesco Massari voleva essere chiamato da tutti come “papà Cescö”, e guai se i nipoti lo avessero chiamato nonno: montava su tutte le furie perché pareva volessero dargli del vecchio. Papà Cescö era nato nel 1896 e teneva tantissimo all’onorificenza concessagli di cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto. Era un uomo di grandissima agilità e forza fisica; di lui i figli e i nipoti conservano una foto, che lo ritrae in un campo di battaglia della guerra del 1915-’18: doveva essere un momento di svago, perché lui cameratescamente si caricava un commilitone sulle spalle mentre quest’ultimo reggeva per un braccio due lunghissimi mortai; a margine della fotografia vi è ancora scritto che il peso tollerato a spalle dal comandante dell’artiglieria someggiata Francesco Massari era pari a 293 kg.
un veterinario di campagna
Luigi Migliazza imparò, allora, il mestiere d’agricoltore da suo padre Giovanni Battista. Ebbe anche modo di frequentare l’Università di Medicina Veterinaria a Milano e di laurearsi, ma anche nel periodo in cui si dedicò allo studio continuava ad aiutare il genitore nella campagna di Pieve Porto Morone. Luigi, quindi, non smarrì l’indole del ragazzo di campagna: poteva andargli benissimo fare il medico veterinario come l’agricoltore. Cominciò la sua attività come libero professionista, poi per oltre un anno lavorò al Centro Sperimentale del Latte di Milano.
Un giorno, nel 1981, un suo collega di Sant’Angelo, che sapeva delle sue origini contadine e che era a conoscenza degli ultimi eventi della cascina Domodossola, gli propose di contattare la proprietà di quella corte.
La cascina Domodossola era stata acquistata nel 1967 dai coniugi Giulio ed Amalia Mangano, industriali nel settore caseario in quel di Varese; Giulio Mangano era stato anche uno dei pionieri dell’apicoltura nomade, e con il miele aveva ricavato buoni profitti. I Mangano acquistarono qualche anno dopo pure la vicina cascina Rita di Borgo San Giovanni e sin dall’inizio si avvalsero della collaborazione di un responsabile aziendale in quanto la loro principale attività si svolgeva a Varese nel settore dell’industria.
le manze dei mangano
I Mangano fecero cospicui investimenti: trasformarono massicciamente le strutture aziendali e direttamente dal Canada importarono oltre duecento manze. Ciò fece sì che la cascina Domodossola divenisse un punto di riferimento importante per gli allevatori della zona. Quelle manze - ad avviso dei titolari dell’azienda - costituivano un punto di svolta per il miglioramento genetico della razza bovina. E sicuramente alla cascina Domodossala si lanciò un ponte verso il futuro.
All’inizio del 1981 tuttavia la situazione cambiò. Purtroppo venne a mancare Giulio Mangano e così qualche mese dopo Luigi Migliazza arrivò alla cascina Domodossola. Prima di prendere la sua decisione, però, Luigi fece vedere il luogo dove sarebbero andati a vivere alla propria fidanzata Laura; vennero anche i futuri suoceri a visionare la cascina, perché la famiglia fosse unita e consapevole della scelta. La premura di Luigi era dettata dall’amore e pure da un senso pratico: Laura, milanese, poteva pure non adattarsi alla vita di corte. Invece la campagna lodigiana la conquistò.
Dopo qualche mese dall’arrivo di Luigi Migliazza la cascina Domodossola prese a rendere per quello che valeva. Lui aveva forse inizialmente una conoscenza più teorica che pratica, ma la volontà di ferro gli fece superare qualunque ostacolo: Luigi ha avuto anche la dote di sapere imparare dai propri errori e di migliorarsi stagione dopo stagione. I primi anni per lui furono intensi, difficili, ma ricchi di soddisfazioni.
una preziosa eredità
La vedova Emilia Bossi Mangano fu molto contenta di questo rilancio aziendale. Donna molto intelligente, la signora Emilia aveva conseguito il diploma di ragioneria e fosse vissuta due generazioni dopo sarebbe stata sicuramente una dottoressa in economia con tanto di master a seguire. Aveva una bellissima calligrafia e i suoi scritti sembravano antichi capolavori su pergamena. Ma, soprattutto, possedeva fiuto e l’intuito di sapere squadrare le persone. Si affezionò così a Luigi Migliazza ed alla sua famiglia. E quando morì volle ricordarli nel suo testamento: così donò metà cascina Domodossola a Luigi; l’altra metà fu donata ad un altro erede, che poi divenne socio dell’azienda agricola con Migliazza. Anche la cascina Rita fu data in donazione a Migliazza e all’altro erede Gandini.
L’azienda agricola ha mantenuto per anni la sua stalla con complessivi 550 capi: il latte veniva conferito alla Centrale di Milano e successivamente, con caratteristiche di alta qualità, alla Granarolo.
Le bovine sono state tolte nel 2007: adesso la stalla, imponente nella sua struttura, evidenza i limiti di una costruzione che andava bene quarant’anni fa, e che non sarebbe più idonea per i tempi attuali. Forse ha pesato anche questo nella decisione, oltre a diverse altre considerazioni, compresa quella che Riccardo, il secondogenito dei Migliazza, ed oggi principale protagonista dell’azienda agricola, ha mostrato più interesse per le colture, che non per gli animali. L’altro figlio, Damiano, ha invece scelto un’attività diversa pur rimanendo molto legato all’azienda e dedicando ad essa parte del suo tempo libero.
L’azienda è quindi oggi esclusivamente ad indirizzo cerealicolo foraggero. Luigi Migliazza, nel tempo libero, ripassa la storia; conserva articoli di giornali, fotocopie di testi, libri in cui sono ricostruite le tante vicende del Lodigiano e di queste zone in particolare. Segue con interesse i dibattiti sull’agricoltura e le proposte che vengono avanzate per il suo rilancio. E, sotto ai suoi spessi baffoni, mantiene quell’indole di ragazzo di campagna, schietto e timorato di Dio, e ad ogni giorno nuovo che sorge ringrazia il cielo per non avere mai smarrito quel faro che accende la luce della fede.
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