Il Mullah e i talebani: “l’altra” storia di Fini

Massimo Fini è un giornalista di razza che non ha paura di andare contro corrente, di risultare antipatico, di smontare il sentire comune dell’opinione pubblica per rimontarlo secondo altre ottiche e prospettive. Così è anche per il libro dedicato al Mullah Omar, enigmatico capo dei talebani afghani, di cui le pagine restituiscono un’immagine non priva di ombre ma nemmeno di luci. Del figlio di contadini, nato e cresciuto nel villaggio di Sadeh (venti chilometri da Kandahar, poverissimo perfino per i già infami standard locali) il libro narra l’impegno contro l’ex Unione Sovietica, la lotta ai signori della guerra (che, partiti i soldati sovietici, si divideranno il Paese), la carriera di leader politico che lo porterà di fatto a diventare una sorta di invisibile presidente dell’Afghanistan e - infine - la guerra senza quartiere alle truppe americane prima, della coalizione dopo, che lo trasformerà in una figura leggendaria. Diventando un fantasma, un’ombra sulla quale convergeranno le confuse accuse dell’Occidente, accuse che Fini prova a smontare rimettendo ordine nella cronologia degli eventi e restituendo, ai singoli protagonisti della storia afghana meriti e colpe. L’autore ne ha per tutti: per Massud, il mitizzato “leone del Panjshir” («a Kabul i suoi miliziani hanno razziato, taglieggiato, confiscato case»); per le centinaia di “vispe Terese” accorse a frotte nelle Ong di Kabul e dintorni (dove «passano da un’ora in palestra a un tuffo in piscina»); per l’ipocrisia dei governi americani e occidentali che hanno devastato l’Afghanistan per snidare il terrorista saudita Osama Bin Laden e che, una volta trovatolo (in Pakistan) dall’Afghanistan non se ne vogliono andare.

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