Ginzburg, l’iconografia

fra politica e religione

Carlo Ginzburg, a 76 anni, può ritenersi a buon ragione uno dei massimi storici italiani. E fra i pochi che vende ancora libri. Merito non da poco in una fase in cui la saggistica - e quella storica più di altre (specie se di ricerca e di ambito non contemporaneo) - arranca sugli scaffali e non trova quasi più editori disposti a sostenerla.

Studioso emerso fra gli anni ’60 e ’70 con alcuni lavori pionieristici di taglio sociale e di storia della mentalità, degli atteggiamenti religiosi e delle credenze popolari (si pensi a I benandanti o a Il formaggio e i vermi per citare i più noti), raccogliendo l’onda lunga della storiografia francese de Les Annales, Ginzburg ha avviato, con Edoardo Grendi e pochi altri, quella tendenza degli studi -soprattutto modernistici - definita “microstoria” per il suo approccio “locale” ma non “localistico” all’indagine sul passato del Belpaese e non solo. L’editore Adelphi ha mandato in libreria nelle scorse settimane l’ultima raccolta di saggi dello storico torinese nella nuovissima (e preziosa, anche nel prezzo) collana “Imago”, che regala per l’appunto ampio spazio alle immagini, alleggerendo le pagine con margini bianchi di vaste dimensioni. Si tratta della versione italiana di un volume collettaneo uscito originariamente in Francia due anni fa e quindi, arricchito di un contributo, in Messico lo scorso anno. Vi sono riunite cinque ricerche realizzate fra il 1999 e il 2008, molto diverse fra loro ma legate all’iconografia politica e caratterizzate dal comune riferimento allo strumento analitico delle pathosforlmen (“formule di pathos”), proposto un secolo fa da Aby Warburg e che permette di portare alla luce tanto le radici antiche di immagini moderne (di ambito politico ma non solo) quanto il modo in cui quelle stesse radici sono state successivamente rielaborate, spesso ribaltate, dal pensiero filosofico, socio-politico, teologico. In una parola dalle eleborazioni culurali dei secolia venire.

Tra i saggi raccolti spicca, anche per l’indubbia attualità, quello dedicato a Hobbes (Rileggere Hobbes oggi) in cui l’A. si confronta con l’importanza della paura nella costruzione politica del filosofo britannico e con il tema della secolarizzazione, della quale coglie uno degli aspetti nodali – che Ginzburg interpreta come una sorta di «invasione di campo» della politica nei confini della religione –: ovvero la dipendenza storica dei concetti politici moderni da quelli teologici. Nell’esaminare il frontespizio del Leviatano, infatti, l’A. suggerisce l’ipotesi che potrebbe essere stata una frase di Tacito - fingunt simul creduntque («credono in ciò che hanno appena immaginato») a ispirare a Hobbes l’immagine del «Dio mortale» . Egli trova, inoltre, un’analogia fra lo stato di natura hobbesiano e la descrizione della peste ad Atene del 429 a.C., narrata da Tucidide nella Guerra del Peloponneso. Lo stretto e storicamente ineliminabile rapporto fra politica e religione torna quindi nel saggio dedicato al dipinto di Jacques-Louis David Marat all’ultimo respiro,(David, Marat. Arte politica religione) ritenuto da Ginzburg un vero «atto politico», nel quale si intrecciano, dentro l’iconografia giacobina visioni classiche e virtù cristiane.

Negli ultimi due saggi, dedicati rispettivamente al manifesto del 1914 di Lord Kitchner – ritratto nel suo famoso appello alle armi alla gioventù inglese –, e all’analisi della celeberrima Guernica di Picasso (il quadro dedicato al bombardamento aereo della città basca durante la guerra civile spagnola), il richiamo all’antichità classica contribuisce infine a spiegare la portentosa efficacia delle due rappresentazioni.

Carlo Ginzburg, Paura reverenza terrore,Adelphi, Milano 2015, pp. 311, 40 euro

© RIPRODUZIONE RISERVATA