Il dottor Alberto Segalini va in pensione: «Chi seguirà i pazienti?» VIDEO

L’intervista di Cristina Vercellone al medico di base e chirurgo plastico

Lodi

La sua preoccupazione maggiore adesso sono i suoi 1600 pazienti. Ci sarà un sostituto che li assisterà e gli dedicherà tutto il tempo che serve come ha fatto lui in questi 43 anni? Il primo ottobre il dottor Alberto Segalini, quasi 68 anni, medico di famiglia e sindaco di Lodi dal ’93 al ’95, andrà in pensione. Continuerà, invece, a esercitare privatamente come chirurgo plastico, come medico per i pazienti che lo contatteranno e, ovviamente, come medico dell’Amatori hockey, la sua passione. Quando apre la porta dell’ambulatorio, al 22 di via San Francesco, dove esercitarono anche Antonio Montani e Vittorio Sala, rispettivamente ex sindaco come lui ed ex consigliere comunale, il pensiero va subito al periodo più brutto del suo percorso professionale, quello del Covid. «Non si capiva niente - sbuffa -, un giorno le linee guida dicevano una cosa, il giorno dopo il contrario. Un giorno una medicina era miracolosa, il giorno dopo dicevano che non serviva a niente. Noi e il Pronto soccorso eravamo in prima linea ad affrontare una malattia che non sapevamo cosa fosse».

Dopo 43 anni va in pensione Segalini. Video di Cristina Vercellone

Dottore avrebbe potuto continuare ancora ad esercitare?

«Compio 68 anni l’1 settembre, un mese dopo vado in pensione. Avrei potuto continuare fino a 72 anni, ma dopo 43 anni penso di aver dato».

Lei è considerato un medico vecchio stampo...

«Sì è vero, ho avuto pazienti nuovi che si stupivano. Quando dicevo: “Venga sul lettino che la visito” mi chiedevano: “Ah, ma mi visita?”. Io indicavo il certificato di laurea incorniciato alla parete. Io visito e valuto, poi se mi servono esami strumentali li richiedo. Adesso alcuni pazienti ordinano ricette, prescrizioni, pretendono. Non va bene. Se non sono contenti possono cambiare medico, ma è reciproco, anche io posso decidere che è venuto meno il rapporto di fiducia».

Le è capitato?

«In tutti questi anni ho rinunciato a 3 o 4 pazienti».

Ha ricevuto tanti attestati di stima dopo l’annuncio del pensionamento?

«Sì, diversi. Una ragazza, per esempio, si è messa a piangere, un’altra persona mi ha mandato un messaggio annunciando una raccolta firme per impedirmi di andare in pensione».

Ha dei rimpianti?

«Mi dispiace lasciare i pazienti con malattie importanti che ho seguito con cura. Sono preoccupato, adesso chi li seguirà? Anche perché c’è un grosso problema di gestione amministrativa della sanità. Tra quest’anno e il prossimo andranno in pensione, insieme a me, in città, altri 5 medici. La mia preoccupazione è che riescano a trovare qualcuno che segua i miei pazienti. A livello regionale adesso devono trovare una soluzione. 1600 assistiti sono un carico pesante, seguirne 2000 è quasi impossibile, 2500 non li segui più. Un medico sa tutto dei suoi pazienti, la sua storia, le relazioni interpersonali che magari sono fonte di stress e depressione, è una specie di confessore: il collega che arriva dovrà ricostruire la storia di ciascuno. Ce la farà?».

Come si può fare secondo lei a risolvere il problema della carenza dei medici di base?

«Bisogna fare programmazione. Attualmente chi vuole fare il medico di medicina generale deve seguire una scuola regionale di 3 anni. In Regione servono moltissimi medici di famiglia, devono aprire anche a chi ha la specializzazione in medicina interna, in cardiologia, ma anche altre specialità. Chiunque deve avere la possibilità di fare il medico di famiglia».

È sufficiente secondo lei questa misura?

«Devono dare al medico delle qualifiche in più. Devono dargli la possibilità di avere un elettrocardiografo, un ecografo. Se un paziente ha dei piccoli disturbi può essere lo stesso medico di base a fare la diagnosi. Il medico di famiglia non può essere ridotto a un burocrate e a un prescrittore di ricette».

Com’è cambiata la professione in questi anni?

«Quando ho iniziato io si faceva tutto a mano, non c’era il computer. L’introduzione del sistema elettronico è un vantaggio, ma c’è anche il rovescio della medaglia: si è caricato il medico di famiglia di compiti burocratici».

Per esempio?

«Per esempio, adesso è il medico di famiglia che deve redigere i piani terapeutici per i pazienti cronici che prendono determinate medicine. Per ogni piano terapeutico servono 30 minuti. Significa che si ha meno tempo per visitare il malato e parlargli. I certificati di infortunio, quelli di invalidità, sono tutti a carico nostro. Sottraggono il tempo che ci serve anche per fare prevenzione».

Cosa le mancherà di più?

«La quotidianità. Ci sono cose, invece, che so per certo che non mi mancheranno, come quando accendo il telefono alla mattina e ricevo 6 chiamate in 8 minuti. Whatsapp, invece, è molto utile. Il suo utilizzo è nato durante il periodo Covid. È una cosa intelligente e stranamente me l’hanno lasciata... Invece di stampare la ricetta, mando la foto su Whatsapp ai pazienti. Venire in studio, mi mancherà di sicuro. Noi abbiamo 18 ore di presenza fisica in ambulatorio e poi le visite domiciliari. Siamo obbligati ad espletare, se lo riteniamo, in giornata, quelle recepite tra le 8 e le 10, quelle che arrivano dopo le 10, invece, possiamo farle fino alle 12 del giorno dopo. Se ci sono pazienti in Adi o allettati andiamo a trovarli, idem se sono in ospedale. Quando vengono assistiti dalle cure palliative, che a Lodi funzionano molto bene, escono dalla nostra assistenza».

Quali sono le esperienze più dolorose che le sono capitate?

«Quelle dei pazienti gravi, seguiti per anni; guardandomi negli occhi mi chiedono : “Dottore, io morirò vero?”. In quel momento tutte le difese cadono. Mi è capitato di recente».

Lei cosa risponde?

«La verità. L’unica cosa certa è che prima o poi moriremo tutti. Adesso però siamo qui, ci curiamo e andiamo avanti».

Una delle soddisfazioni più grandi?

«Mi ricordo il caso di una signora che aveva un tumore alla tiroide. Lo specialista le aveva detto che non era niente. Io le ho salvato la vita. Il giorno dell’anniversario dell’intervento, tutti gli anni, mi porta un regalo».

C’è qualcosa che la rende orgoglioso?

«I miei figli che hanno deciso di fare il medico. Mia figlia è anestesista al Careggi di Firenze, mio figlio è chirurgo a Crema. Poi c’è la nipotina. La settimana prossima andrò al mare con lei».

La sua professione è iniziata come chirurgo plastico?

«Mi sono laureato nel 1980 a Pavia. Dopo la specialità di chirurgia plastica a Pavia ho fatto due anni a Bergamo, operavo i bambini ustionati, malformati, le persone che avevano avuto un incidente, che avevano un melanoma. È stata un’esperienza molto gratificante. Ora continuo e continuerò a occuparmi di medicina estetica privatamente».

Le liste d’attesa in ospedale sono un problema per voi?

«Sì, in alcuni casi, in altri invece non ci sono problemi».

Le case di comunità sono una soluzione?

«No, secondo me, non sono la strada per risolvere i problemi della sanità. Si perde il rapporto medico paziente. Bisogna puntare, invece, alla medicina di rete, dare la possibilità ai medici di associarsi tra loro, così che i pazienti abbiano sempre una risposta».

Una delle problematiche della sanità?

«La medicina difensiva. Nata in America, adesso sta arrivando da noi, paralizza i medici e li spinge per tutelarsi a chiedere sempre più esami. Anche per questo le liste d’attesa si ingolfano».

Una cosa bella che vorrà fare da pensionato?

«Visitare i pazienti che me lo chiederanno, ma anche godermi la casetta che ho a Minorca, a 200 metri dalla spiaggia».

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