 
        
       
    Cinzia Rocchetto: «Ho dovuto chiudere la porta, non avrei mai pensato di farlo» - La video-intervista completa
Covid Parla l’infermiera che nel 2020 lavorava in Pronto soccorso a Codogno
Lodi
È stata lei a chiudere la porta del Pronto soccorso di Codogno quando si è deciso di trasferire tutta l’assistenza a Lodi. L’infermiera Cinzia Rocchetto, che oggi lavora nella Casa di comunità di Codogno, racconta con il groppo in gola la sua significativa esperienza.
Dove si trovava la sera del 20 febbraio?
«Essendo fuori turno, quella sera ero nel mio letto, purtroppo, e non ho saputo assolutamente nulla se non la mattina quando, come tutti i giorni, alle 8 mi sono recata in Pronto soccorso. La sera in cui è scoppiato tutto, io ho solo letto dei messaggi che provenivano da amici che vivono all’estero: mi chiedevano informazioni. All’estero probabilmente sapevano già quello che stava succedendo. E io ho pensato: “Probabilmente mi stanno prendendo in giro”. Ho risposto: “Ma no, figuratevi. Sarà una delle solite fake news. Non preoccupatevi, non succede nulla”. Li ho rincuorati. E poi sono arrivata al mattino alle 8 in ospedale e ho iniziato a vedere i giornalisti. Lì ho iniziato a realizzare che forse i miei amici mi stavano informando di una realtà, ma non ci volevo ancora credere. Poi la giornata è iniziata come tutte le altre, andando nello spogliatoio, cambiandomi ed entrando in Pronto soccorso per le vie che tutti gli infermieri fanno, quindi dalla parte del retro. Ho incominciato a vedere un anti-shock con tanti pazienti, ma soprattutto i colleghi della Rianimazione che stavano intubando un paziente, qui in questa in questa stanza. Li ho visti bardati come ben conoscete, con la divisa con la tuta bianca impermeabile, con gli occhiali, con la mascherina, con la visiera. E io invece ero con la mia bellissima borsettina rossa e con la mia divisa che indosso tutt’oggi e sono stata proiettata quasi in un film. Un film in cui veramente nessuno avrebbe voluto mai essere. Ho dovuto fare un bel respiro: l’emozione è ancora oggi forte. Se penso a quei momenti, un po’ le gambe mi tremano».
Quando è arrivata i suoi colleghi cosa le hanno detto?
«Quando sono arrivata, essendo scoppiata una maxi emergenza, ovviamente il nostro primario aveva dato l’indicazione di fermarci tutti: c’erano ancora i ragazzi della notte che non potevano andare via. In quel momento è come se il tempo mi si fosse fermato addosso, perché i pensieri sono andati alla famiglia, alla figlia e a quello che stava succedendo».
Che pazienti c’erano qui?
«C’erano dei pazienti che erano routinari. Abbiamo preso atto che tutti i pazienti che avevano febbre e problemi respiratori dovevano essere trattati come potenziali Covid e quindi isolarli per evitare il contagio».
Mattia era in rianimazione, però erano presenti altri pazienti intubati qua...
«Stavano intubando quando sono arrivata alle 8. Abbiamo avuto indicazioni dal primario di stare al triage, di fare questa divisione di pazienti: chi aveva febbre, sintomi influenzali, veniva da determinati posti, Castiglione in maniera particolare, doveva essere gestito in una determinata stanza, quindi isolato. Si era cercato già di fare un filtro fino a quando il primario ha ricevuto indicazioni dalla direzione di gestire e bloccare gli accessi in Pronto soccorso a Codogno e di chiudere la porta per non far arrivare più altre persone, per impedire quindi eventualmente infezioni e poter gestire la situazione al meglio».
Abbiamo una foto in cui c’è l’infermiera che chiude la porta: e lei giusto?
«Sì, sono io. Mai avrei pensato che sarebbe successo una cosa di questo genere, è stato pesante dal punto di vista...»
Emotivo?
«Sì, l’emozione è stata tanta soprattutto quando ho sentito il primario, i colleghi della Rianimazione e in maniera particolare il coordinatore, parlare di Mattia e della sua situazione clinica: mai nessuno aveva visto, un quadro clinico polmonare simile, con una gestione particolarmente difficoltosa. Mi sono resa conto che eravamo di fronte a una patologia che non conoscevamo, che comunque non sapevamo trattare. Lì ho fatto una riflessione sulla possibilità della morte, non lo nego».
Aveva già avvisato i suoi familiari?
«Avevo già avvisato immediatamente di recuperare mia figlia dalla scuola, che non sapevo quando sarei tornata, che avevo paura. Ho avvisato, oltre ai familiari, l’amica più cara che ho, che per me è una sorella e ho espresso tutte le mie paure».
Siete stati trasferiti al Pronto soccorso di Lodi quando avete finito di svuotare?
«Alle 23.30 siamo riusciti a tornare a casa, grazie sempre al nostro direttore, il dottor Stefano Paglia, che ha collaborato a svuotare e a mettere in sicurezza tutti i pazienti».
Lei si è ammalata?
«Io mi sono ammalata, perché comunque a gennaio vedevamo già tante altre polmoniti, anche se pensavamo fossero legate al periodo classico dell’influenza».
I pazienti di quella sera sono andati in Rianimazione al Sacco perché da noi non c’erano più posti?
«Sì, fino a quando il Sacco non è stato saturo e quindi hanno cercato altri ospedali e poi il dottor Paglia si è prodigato ad attivarsi sul Pronto soccorso di Lodi».
È stata reclutata dopo la malattia...
«Mi hanno chiesto: “Cinzia, vuoi andare nel Pronto soccorso pulito o nello sporco?”. Ho deciso di andare nello sporco. Siamo state solo in due ad andare».
Come mai ha fatto questa scelta?
«Mi sono sentita, era la scelta più giusta. Io avevo già fatto il Covid, una vaccinazione naturale, sapevo che potevo essere più utile lì, i numeri erano elevati, i colleghi del Pronto soccorso erano allo stremo».
Com’era la situazione?
«Era drammatica. Il primo giorno che sono entrata in Pronto soccorso a Lodi sapevano che sarei arrivata sempre come fuori turno nei miei orari. Sono entrata in sala d’attesa. Me la ricordavo luminosa con questo bancone, invece era buia, piena di lettini, con pazienti che avevano l’ossigeno. Mi sono avvicinata al banco “quatta quatta” perché non volevo quasi disturbare i pazienti che dormivano. Mi sono avvicinata alla collega, mi sono presentata, mi hanno messo in astanteria, un’astanteria che era quasi ingestibile per il personale che c’era. È stato faticosissimo, dal punto di vista fisico ed emotivo. C’erano bombole d’ossigeno ovunque, lettini ovunque presi nei reparti, nei servizi, che erano uno dietro l’altro, non c’erano spazi. I pazienti avevano bisogno anche semplicemente dell’acqua, volevano parlare con i loro parenti, le cose più semplici, ma non c’era il tempo di ascoltarli e questa cosa faceva male. Noi infermieri abbiamo una venerazione per i pazienti, io mi prendo sempre a cuore i loro bisogni. È stata dura».
Una storia bella e una brutta?
«Io ricordo più storie brutte. C’è una storia brutta che mi fa ancora molto male: ero in astanteria, mi ricordo il mio primario che mi ha preso, voleva farmi capire che eravamo in una situazione grave, mi diceva: “Salviamo questo paziente o salviamo quest’altro paziente che non ha la possibilità?”. So che per logica dovevo aiutare di più il 50enne che un’altra persona che probabilmente non aveva più stoffa, però mi ha fatto male. Quando mi hanno detto: “Ormai è ora di non spendere più tempo per questa persona e di toglierle l’ossigeno”, non me la sono sentita. Non volevo toglierlo e non gliel’ho tolto. C’è stato il cambio turno, ho dato questa consegna e probabilmente qualcun altro l’ha fatto al posto mio. La cosa mi ha fatto malissimo. Mi ricordo i giorni che rientravo a casa, cercavo di mettere la musica a tutto volume per togliermi il pensiero di quello che vedevo tutti i giorni; il viso di quest’uomo me lo ricorderò per tutta la vita, assolutamente...».
Nei giorni successivi gliel’hanno chiesto ancora?
«Assolutamente, era diventata una regola. Quando mi dicevano: “Lui è da Inail”, era un codice. C’era una zona una volta dedicata all’Inail. Lì c’erano i pazienti che non avevano più possibilità e venivano accompagnati con la terapia antidolorifica e la palliazione. Il dispiacere è per quei pazienti che sono morti da soli e noi non avevamo la possibilità di stargli vicino. Solitamente c’è sempre un infermiere che gira, invece non avevamo il tempo di dar da bere alle persone, figuriamoci di stare di fianco alle altre. A volte mi sono chiesta se fosse colpa mia che non facevo abbastanza, colpa nostra che non avevamo trovato delle soluzioni. Si fanno un po’ di pensieri. Ci sono state anche altre situazioni... C’era gente che veniva dai parenti, ricordo che gli davamo l’escamotage per salutare i loro cari. Le facevamo venire alle finestre per poterli salutare mentre erano a letto. Erano quelle fortunate che stavano vicino per caso a una finestrella. Per le altre era impossibile. Belle, no, mi dispiace. Non ci sono state storie belle».
Nel primo periodo, non c’era neanche la possibilità di contattare i parenti.
«In realtà era il medico che contattava i parenti, ma solo esclusivamente se c’era una situazione che stava degenerando: i medici erano veramente impegnati, erano ancora meno di noi infermieri e stavano facendo il massimo che potevano, quindi turni sopra turni. No, non si poteva».
E dal punto di vista psicologico. Come ha reagito?
«Allora diciamo che era pesante dal punto di vista fisico e pesantissimo dal punto di vista psicologico. Infatti ci era stato chiesto di contattare il nostro punto ospedaliero di psicologia. Non c’era però il tempo di farlo: anche loro erano pieni di appuntamenti. Io avevo contattato telefonicamente la psicologa, ma non riuscivamo per via dei tempi: si lavorava, si lavorava, si era stanchi, si voleva ritornare a casa. Come è finita? Per quanto mi riguarda io sono andata in burn out, tant’è che ad oggi non lavoro più in Pronto soccorso con grande dispiacere. Era giusto, fosse così. È stato messo un punto e mi sono ritrovata in un’altra dimensione. Avevo forse dato tanta energia e non riuscivo più a dare nulla a questo servizio».
Quindi ha scelto lei di cambiare?
«In realtà, se volessimo essere proprio onesti, è successo un evento particolare: mi hanno fatto, poi, non nego, in seguito a quell’episodio, una visita psichiatrica. Non si parla mai di psichiatra, perché sembra quasi che siamo tutti dei pazzi. In realtà io voglio dire che i nostri psichiatri in quel momento mi hanno aiutata tantissimo. Hanno capito che non avevo più la possibilità di stare e di dare al Pronto soccorso, ma dovevo essere destinata a un altro servizio».
Questo alla fine della pandemia...
«Questo alla fine della pandemia, quando siamo rientrati a Codogno: ormai avevamo iniziato le vaccinazioni. Sì, devo ammettere che sono andata avanti nel tempo, fino quando ero a Lodi. Fino a quando, come si dice in Emilia, ho tenuto botta».
Sono tanti gli infermieri che sono andati via?
«Si hanno fatto la scelta di andare via e anche cambiare, forse per cercare di dimenticare, forse per cercare altri tipi di esperienze. Voglio pensare che abbiano voluto migliorare la loro qualità di vita. Perché poi ha fatto riflettere questa cosa. La qualità di vita era fondamentale secondo me e ormai per me è un mantra».
E quindi come è cambiata la sua vita? Adesso fa l’infermiera di comunità...
«Ad oggi faccio l’infermiera di famiglia, sono sul territorio, mi dedico ai pazienti fragili, quindi tutta l’esperienza e tutto il bagaglio che ho lo sto riversando a casa dei pazienti e per le loro necessità. La mia vita è cambiata sicuramente se prima forse girava più intorno al lavoro, adesso do un peso molto più importante alla quotidianità, alla vita, al tempo, alla gente, a un abbraccio, a un sorriso che credo che sia la cosa più bella che noi possiamo donare insieme a un abbraccio a chi ha bisogno, cosa che ci siamo fatti mancare tantissimo in quel periodo. Io non sono una che esprime molto le mie emozioni, solitamente. Ho sempre sorriso tanto, ma ad oggi voglio anche abbracciare, sentire il contatto fisico. Assolutamente sì, lo voglio».
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