ESTATI LODIGIANE A centinaia in riva al fiume, l’Adda era divertimento e fonte di sostentamento

L’eco di un mondo che non esiste più, superato dal progresso e dalle fabbriche

Lodi

Beppo Boriani si è alzato presto stamani. Come ogni mattina.

È andato al fiume, ne ha colto l’umore, e nei pressi di un’ansa, su un denso canneto, ha preso due lunghi fusti lignei, sottili e resistenti.

Quando ha dato le spalle al fiume, tornando verso casa, non c’era ancora anima viva nei dintorni. Malgrado sia una domenica di piena estate. Ci sono ancora quelli che vanno all’Adda, soprattutto per prendere il sole. Ma tanti anni fa le presenze erano maggiori; c’era una folla di gente, un vero moto collettivo nella spensieratezza più genuina: “L’Adda era il divertimento dei poveri, si era proprio in tanti, ci si divertiva con sincera allegria”, mi dice Beppo, nella sede dell’associazione Barcaioli e Lavandaie, mentre rende lucide e vibratili i verdi culmi, come avessero anche loro un’anima: “Guarda che belli!”, osserva.

Gli chiedo dell’Adda, un fiume che ha avuto una storia bellissima, roba che altri gli avrebbero dedicato un museo, e non solo di arnesi e di barche, ma di indumenti, odori, profumi, minerali, ori, e soprattutto volti ed espressioni: se c’è stato un vecchio e il suo mare, sicuramente avrebbe potuto esservi un altrettanto epico anziano nel suo straordinario fiume.

Quello di Beppo è un racconto appassionato, di casotte immerse nella natura, e di sofferenze che volevano prendere la forma di sogni e restavano invece utopie. E, almeno in certe giornate, di canti e colossali bevute. Serina, Rovida, Joli erano i principali osti della città: per i barcaioli dell’Adda le porte dei loro locali erano sempre aperte.

Era frequentato dai poveri, il fiume, almeno nelle zone di Col del Prete, o sotto il Ponte della città, ai Pinei, perché nei quartieri del Borgo e della Maddalena gli abitanti erano di origini umili. Ed era duro il mestiere dei cavagera, che d’estate lavoravano al fiume, e in inverno facevano i boscaioli, mantenendo le ripe del fiume pulitissime, e vendendo la legna, che quasi ci ricavavano di più che non dal primo impegno.

Molti anni prima c’erano pure i cercatori d’oro, sul fiume. Come Giovannin Miraton: Beppo dice che era della zona di Turano Lodigiano, e che fu lui l’ultimo di questa stirpe. Cercava l’oro e chissà se mai lo trovò. L’avrebbe meritato, con quel setaccio che raccoglieva più dolori che glorie.

Uomo eccezionale, Miraton: buono, generoso, semplice, come la gente di fiume.

I cavagera erano davvero un’unica grande famiglia. Gente che anteponeva il cuore in relazione ai bisogni degli altri.

Come quando, nel 1951, andarono in Veneto, per la piena del Polesine: avevano la barca carica di materiale da destinare agli sfollati. Giovanni Merlo, classe 1897, campione nazionale di canottaggio, fu il primo a volere partire: aveva sposato una donna originare di quelle zone cui si era profondamente legato.

E i veneti ringraziavano questi lodigiani, che sembravano non cedere mai alla fatica, e tutti, pur nella disperazione, ammiccavano con sguardo sorpreso alla loro bellissima barca.

A Lodi c’erano maestri d’ascia, che con le loro costruzioni, suscitavano l’ammirazione di tutti: i cugini Sacchi, noti come “Talame”, talmente bravi che le loro barche le volevano pure a Maccastorna.

Ogni imbarcazione poteva portare una enorme quantità di ghiaia, sabbia ed acciottolato compreso, raccolta soprattutto nella zona intorno a Spino d’Adda, scendendo sino ad un metro e mezzo di profondità del greto.

I cavagera, per una, due lire, caricavano tutto sulla barca e poi quel materiale veniva riposto su carri, trasportati da cavalli, verso i cantieri edili sui Navigli di Milano.

A regolare le manovre di lavoro era preposto il signor Ferrari, cui poi fu dedicato il nome della piarda: dove era opportuno andassero le barche era lui a deciderlo, perché aveva la stima di tutti.

Ma già agli inizi degli anni Sessanta i cavagera avevano avuto il foglio di via: i badili furono banditi, proprio come era accaduto ai setacci. Le barche di legno issate sulle rive. E il fiume fu solcato da imbarcazioni in ferro. E sulle acque vennero calati macchinari, in grado di scavare oltre 15 metri. Eppure si era detto che non sarebbero scesi oltre i tre, di metri.

Vi fu un esodo della gente di fiume.

Chi andò in fabbrica. Chi si immise nell’edilizia. Qualcuno prese a fare il mungitore, in una civiltà, quella rurale, che però cominciava già a retrocedere dai propri fasti di gloria. C’è chi scelse di fare il bagnino durante il periodo estivo, e nelle abbandonanti nevicate di una volta erano proprio loro ad offrirsi per le operazioni di spalatura delle strade della città.

Agli Angelini, che erano 11 fratelli, ai Merlo, ai Cappella, agli Ovena, ai Bellocchio, ai Generani, si deve la valorizzazione del fiume, non solo come fonte di reddito, ma come luogo di divertimento, a beneficio almeno delle estati di tantissimi lodigiani: furono loro i primi a portare le proprie famiglie al fiume, durante le giornate domenicali.

Cominciarono anche dei riti che divertivano tantissimo i bagnanti.

Ad esempio, all’altezza della terza arcata del ponte di Lodi veniva posizionato un palo, una sorta di albero della cuccagna, imbrattato di grasso, e su cui venivano collocati alcuni generi alimentari, compresa una gallina: arrampicarvisi era difficilissimo, il più delle volte si cadeva, ma ogni volta che veniva agguantato il premio erano applausi e chiasso festoso. Il bottino si condivideva fra amici.

A ben altro rito aveva abituato Migliorini, uno dei due storici fratelli, domatore di leoni nei circhi: prima di andare alla Canottieri, dalla penultima arcata del ponte si lanciava a capofitto sul fiume.

Poi c’erano le tradizioni religiose: come quella di San Rocco, nel giorno di Ferragosto, la cui statua era portata in processione dal ponte sino al Geraletto.

Prima che i macchinari sconquassassero il fondale in tantissimi facevano il bagno sull’Adda. Ma con il fiume è sempre meglio non prendere eccessiva confidenza. Proprio per scongiurare certe leggerezze, in uno dei periodi più caldi dell’estate, veniva diffuso il detto che santa Maria Maddalena ne vuole 7 di piede e 7 di testa, ben quattordici morti, sette giorni prima della sua festa e sette dopo, e quindi era meglio non immergersi nelle acque dell’Adda: ma può mai una santa essere così spietata?

Che poi non è il fiume cattivo, ma i suoi mulinelli sì, quelli sembrano mandati dal diavolo: perchè sono improvvisi, violenti, come le trombe d’aria, ma questa volta subacquee, e tirano giù, e mettono paura, e non è detto che uno, anche esperto, sappia uscirne indenne da quel risucchio maledetto. E persino nelle settimane passate non ci fosse stato Federico Vanelli, campione di nuoto, avremmo pianto un ragazzino in difficoltà.

E poi un altro rischio è dato dalle temperature: in superficie carezzevoli, ma poco sotto gelide, e uno si chiede cosa stia accadendo e si agita, e la paura può degenerare in panico e sfuggire di mano. Bisogna rispettarlo il fiume: non è un nemico, ma non è necessario credere di potervi avere chissà quale confidenza.

Però andare all’Adda era sempre una giornata di festa, per molti imperdibile.

Le estati sono cambiate per tutti. Si è pure modificato il modo di divertirsi. Angoli suggestivi, con atmosfere tropicali, sembrano ancora da bonificare, infestati come sono da zanzare e moscerini.

Però c’è una tradizione che andrebbe riscostruita e valorizzata. Ma sono diminuiti anche i pesci, che con lo sbarramento non possono più risalire e il periodo di monta lo vivono altrove.

Sarebbe così bello udire ancora l’incedere delle operazioni di sagomatura sul legno, quella sfregatura simile ad un suono arcaico, e sulle acque il lento scivolare delle barche, qualcosa che non resti come l’ultimo incantevole disegno di Ugo Maffi, ma che prenda ancora vita, non come semplice eco di giorni che non torneranno mai più, perché ogni cosa ha il suo tramonto quando si attenua la luce del giorno.

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