
Editoriali / Lodi
Giovedì 04 Gennaio 2024
«Portiamo l’ospedale a casa dei malati: la mia esperienza personale»
Lei se n’è andata un pomeriggio di novembre, sul divano di casa. Io la “soffocavo” con i miei abbracci e urlavo. Però eravamo a casa.
Non è della morte di mia mamma 90enne però, colpita da due ictus ischemici in poco più di un mese, che voglio parlare e neanche della condizione spazio temporale dell’essere umano.
In questi anni al «Cittadino» mi sono occupata spesso di questioni legate alla sanità del Lodigiano, ma solo adesso che mi sono trovata con la mamma “chiusa” in ospedale mi sembra che siano diventate chiare alcune priorità.
Già altri miei famigliari erano stati ricoverati, in gravi condizioni, mio papà e mio fratello, per esempio, ma non erano anziani.
Le cose che mi spiegavano gli amici in veste di giornalista hanno smesso di essere parole e si sono concretizzate, a volte in bene, anzi benissimo, altre volte no.
Un esempio di questo “no” è lo sgretolamento, per quanto riguarda Lodi, della squadra infermieristica specializzata nel posizionamento dei Picc, i cateteri inseriti all’altezza del braccio con l’aiuto dell’ecografo, che evitano ogni volta di bucare un paziente per il prelievo. Quando una delle due persone che svolgevano questo servizio è deceduta e il suo collega si è ammalato per un po’, il servizio è stato sospeso. Le conseguenze si sono viste nei lividi sulle braccia di mia mamma, paziente in terapia anticoagulante (come tanti anziani lo sono).
Non so se questo sia collegato all’emorragia che ha avuto dopo. So però che mia mamma ha avuto la fortuna di essere ricoverata, in seguito a questo problema, nell’Obi del pronto soccorso e di incontrare il primario Stefano Paglia che ha chiamato l’infermiere specializzato e le ha fatto mettere il catetere (oltre ad avere insistito perché tornasse a mangiare normalmente). Una scelta che ha fatto la differenza.
Adesso la squadra è stata ricostituita, ma è attiva solo due volte alla settimana.
La riforma della sanità ha previsto i “fantomatici” ospedali di comunità. Nel Lodigiano sono stati stanziati alcuni milioni per aprire queste strutture a conduzione infermieristica con il supporto, sulla carta, dei medici di base. La prima è sorta a Sant’Angelo. Quali sono però i pazienti candidati al ricovero lì? Non so quale sia la casistica dei giovani, ma gli anziani, mi chiedo, possono finire in un reparto a così bassa intensità, in un presidio periferico (dove tra l’altro c’è un problema di personale visto che il contratto con la cooperativa scadeva il 31 dicembre e in virtù della apprezzata delibera regionale contro le esternalizzazioni non può essere rinnovato)?
Stessa cosa per i reparti di subacuti. Qual è il livello di sorveglianza notturna di un paziente anziano e quindi critico? È sufficiente? Ho visto la differenza tra un ricovero qui e quello in un reparto di emergenza urgenza con il monitor sempre collegato.
Non vedo l’ora che venga realizzato il progetto di potenziamento dei pronto soccorso presentato pochi mesi fa a livello regionale che prevede, anche per Lodi, un reparto con dei letti dedicati all’emergenza urgenza.
Da giorni mia mamma chiedeva con insistenza di tornare a casa e io, nonostante gli sforzi, non riuscivo ad accontentarla. Uno strazio. “Sei una ingrata”, potrebbe pensare qualcuno: “Avevi la mamma curata in ospedale, l’avrebbero dimessa quando sarebbe stata meglio e tu volevi portarla a casa prima”. L’ospedale non era più un luogo di cura, si era trasformato in una prigione. Mi rendevo conto benissimo, prima che arrivasse il secondo ictus e che i medici finalmente decidessero di dimetterla, affidandola però alle cure palliative, che la sua vita non avrebbe più potuto essere come quella di prima.
Qualche giorno dopo il suo decesso mi arriva al giornale la notizia della presentazione di un fantastico progetto di realizzazione di un nuovo ospedale a Cremona. Cosa mi ha colpito di più in quel momento? La progettazione di 80 posti letto “finti”, ovvero destinati all’ospedalizzazione domiciliare. Il paziente resta a casa sua e viene assistito dal personale dell’ospedale. Un sogno: il paziente cronico è a casa, viene curato e quando si riacutizza non ha bisogno di rivolgersi impropriamente al pronto soccorso. Ricordo che anche a Lodi anni fa, si parlava di ospedalizzazione domiciliare, ma poi il progetto era purtroppo naufragato.
Mi telefona un’amica ieri: “Hanno dimesso papà - dice -, siamo soli. Pensavamo che l’assistenza domiciliare prevedesse la presenza quotidiana dell’infermiere, dell’Oss, del medico, del fisioterapista. Invece la riabilitazione non è stata attivata, l’infermiere viene solo due volte la settimana, il medico di famiglia è soffocato dal numero di pazienti in ambulatorio ed è pr forza di cose inesistente, mentre la guardia medica non viene a casa a visitare. Poi si stupiscono se chiamiamo il 118. Siamo letteralmente abbandonati. Dobbiamo ricorrere privatamente ai medici che conosciamo. Bisogna denunciare questa situazione”.
La conforto e annuisco. Il pensiero va a un’altra mia amica che ho incontrato per strada la vigilia di Natale. Lei ha perso suo marito, giovane, in seguito a vari episodi ischemici che lo hanno perseguitato nel corso degli anni. Era ancora disperata: anche lei avrebbe voluto stare a casa con suo marito in assistenza domiciliare e invece no, l’unico servizio con un alto carico assistenziale, presente a domicilio, è quello delle cure palliative che, anche se, tranne in alcune rare occasioni, è finalizzato all’accompagnamento nel fine vita.
La saluto e scappo in redazione, commossa da quell’incontro e penso. Quella delle cure palliative è un’unità fantastica, fatta di persone splendide e profondamente umane, che ringrazierò sempre di cuore per quello che fanno e hanno fatto per mia mamma adesso e per mio fratello prima. Non è questo il punto. La morte fa parte della vita e per mia mamma, in quel momento, era l’unica strada. Il punto sono i ricoveri prolungati, sono il vuoto a casa quando per un paziente l’assistenza domiciliare non basta e per le cure palliative non è il momento.
Caro direttore, mi auguro che il nuovo anno ci porti a mettere in fila le priorità e quando si parla di sanità penso anche alle liste d’attesa per visite ed esami e alle esigenze cliniche. Penso al personale che manca e non alle scelte obbligate fatte passare come virtuose, come fermare gli interventi chirurgici per liberare i posti letto destinati ai pazienti in arrivo in ospedale.
Ringrazio tutti gli operatori sanitari, di tutte le categorie e dei vari reparti (il pronto soccorso, la radiologia, la neurologia, il reparto di subacuti di Sant’Angelo, la medicina e le cure palliative) che hanno seguito mia mamma con grande competenza professionale e dedizione umana. Mi auguro che le scelte del futuro siano dalla loro parte.
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