
A Jalta, in Crimea, Churchill, Roosevelt e Stalin stabilirono una comune risoluzione del secondo conflitto mondiale. E presero importanti decisioni per il futuro dell’Europa e del Mondo. Queste trattative si svolsero nell’arco di una settimana, tra il 4 e l’11 febbraio del 1945.
Si spesero parole positive al termine della conferenza; ma non mancarono le voci più critiche.
Indro Montanelli, su tutti, giudicò assai severamente la miopia dei leader anglo-americani, colpevoli, a suo dire, di aver consegnato gran parte del Continente in mano a Stalin.
Gli fece eco lo storico tedesco Joachim C. Fest: «Stalin sapeva che, a Jalta, i suoi alleati erano in una posizione di debolezza. Per Roosevelt e Churchill, la sconfitta della Germania era la priorità, e così Stalin ottenne tutto ciò che desiderava».
E, in effetti, alla vigilia della conferenza le circostanze erano decisamente a favore di Stalin: l’Armata Rossa era ormai a ottanta chilometri da Berlino; gli anglo-americani ancora impantanati sul confine occidentale, nei territori tedeschi.
Tutto questo Churchill e Roosevelt dovevano riconoscerlo. Fu dunque mero pragmatismo a guidarli? O davvero serpeggiava un certo timore reverenziale nei confronti del loro omologo sovietico? Henry Kissinger non ha dubbi: «Jalta non fu un tradimento, ma un atto di realpolitik». I leader anglo-americani erano sicuri di aver trovato in Stalin un «capo ragionevole». Anzi, erano preoccupati per la sua salute. Difatti, secondo le loro previsioni, il suo successore avrebbe seguito una linea ben più dura nei confronti delle potenze occidentali.
È significativo, tuttavia, che solo due giorni dopo la conclusione della conferenza gli Alleati anglo-americani mostrarono i muscoli attraverso i feroci bombardamenti di Dresda (13-15 febbraio).
In questo quadro, appare più moderato, e meno capzioso, il giudizio di Sergio Romano, che, pur sottolineando l’importanza della conferenza, ravvisò che proprio «Jalta segnò l’inizio della divisione dell’Europa e la nascita della Guerra Fredda». La promessa di pace non fu mantenuta: vennero anzi poste le basi per un nuovo conflitto, ancora più lungo, più subdolo.
Tuttavia, proprio Romano ci invita a non cedere al naturale istinto di trovare sempre un unico fatto che spieghi tutto, un’unica causa degli eventi, quando invece «le vicende storiche sono il risultato di una molteplicità di fattori che sfuggono quasi sempre al nostro controllo».
Sciocco sarebbe chi pretendesse di trovare nella Storia una spiegazione univoca al corso degli eventi, il cui significato spesso è mutevole, a seconda della prospettiva di osservazione che intendiamo prediligere. Giacché, come diceva Benedetto Croce, la storia è sempre contemporanea: non è possibile comprendere il passato, se non con gli occhi del presente.
Dunque, non cediamo all’umana tentazione di ricercare sempre un solo motivo, un’univoca spiegazione: il bilancio della conferenza di Jalta, al pari di tutti gli altri fatti storici, sarà perfettibile, ma mai universalmente condiviso. Non si tratta di relativismo: non tutti giudizi sono uguali. Si tratta di ammettere l’impossibilità di giungere a una sola verità.
Accontentiamoci allora, riprendendo in mano la celebre foto a colori dei tre leader riuniti a Jalta, di contemplare ancora una volta il volpino sguardo di Churchill, che gusta il suo immancabile cubano; gli occhi annacquati di Roosevelt, provati dalla malattia; la glaciale, statuaria fisionomia di Stalin. Tutti e tre abbozzano un sorriso, che appare però teso, di circostanza. La pace, quella vera, è ancora lontana. Chissà quando potremmo scattare un’altra foto che ritragga i leader di queste tre nazioni di nuovo insieme? Magari sorridendo più sinceramente, questa volta.
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