Silvano Bescapè e l’archivio delle meraviglie

Il fotografo lodigiano ha salvato uno sterminato patrimonio di immagini e ne ha fatto un museo a Cavenago: un autentico tesoro che va difeso e custodito

L’ex fabbrica del ghiaccio, affacciata sul cortile di casa, nasconde un tesoro di storia e memoria. Siamo a Livraga, nell’abitazione di Silvano Bescapè, classe 1941, fotografo per professione e collezionista per passione. Alzi la mano chi non lo conosce, non foss’altro che per l’enorme numero di matrimoni che ha immortalato con il suo obbiettivo. «Ne facevo anche 160 all’anno» ricorda. Oggi Silvano è in pensione e si dedica al suo personale tempio della fotografia, il Museo Paola e Giuseppe Bescapè, ospitato dal 1993 in alcuni locali messi a disposizione presso il municipio dal Comune di Cavenago d’Adda. E poi c’è quell’amore “folle” per le immagini del passato, scatti e cartoline, a migliaia, anzi centinaia di migliaia, «forse addirittura tre milioni» – dice lui - se si mette in conto l’enorme mole di negativi raccolti in decenni di attività collezionistica. Un’attività che Bescapè ancora coltiva portando le sue “chicche” sui banchi dei mercatini antiquari di Lodi e Codogno, acquistando e vendendo perché una collezione, per quanto grande, non è viva se non la si anima di nuove cose. Almeno un po’.

Tutto cominciò così

«Con la fotografia ho iniziato quasi per caso, che avevo più o meno 16 anni – ricorda Silvano -. Era il 1957 e mi ero impiegato come barista in un caffè tabaccheria di corso Sempione a Milano. Lì vicino c’erano gli studi della Rai e ci venivano molti giornalisti. Con loro anche un fotografo che lavorava per la cronaca di alcuni giornali, anche per il Corriere della Sera. Un giorno mi invitò a vedere la sua camera oscura e lì scattò qualcosa. Mi sono preso una macchinetta, impiegando quattro risparmi, e ho cominciato a fare qualche foto, le mie prime foto, in giro per Livraga, il mio paese».

Ma così, fare click per diporto, non era abbastanza. E servire caffè e aperitivi non era nel suo destino. La fotografia, quella sì. «Ho fatto il mio apprendistato da Peveri che aveva il suo studio a San Colombano – continua Bescapè -. Qualche mese appena, perché poi, rispondendo ad un annuncio sul giornale, ho trovato un posto come fotoreporter al Corriere Lombardo, che era un quotidiano milanese del pomeriggio».

Una scommessa giovanile

L’esperienza ha consentito al giovanissimo Silvano di acquisire nuove competenze, ma quel lavoro – per quanto interessante - gli stava stretto. Quel che aveva in mente era mettersi in proprio. «É così, e infatti nel 1960, ad appena 19 anni, ho aperto la mia Foto Olimpia qui a Livraga. In quegli anni c’era poco da guadagnare, ma ho tenuto duro. Anzi, dopo il matrimonio mi sono anche allargato: nel 1967 ho aperto un secondo negozio a Castiglione d’Adda e nel 1973 sono arrivato a Lodi, in corso Roma». Era quello lo storico Atelier Silvano, ora passato in dote al figlio con l’attività di famiglia.

La passione di una vita

È stato in quegli anni che si è acceso in Silvano il fuoco del collezionismo. Ancora una volta quasi per caso. «Il marito di una conoscente morì lasciando una raccolta di circa mille cartoline, molte d’epoca – Bescapè ritorna con la memoria al suo primo acquisto –, e mi chiese se volevo comprarle. È cominciato tutto così. Da allora non mi sono più fermato». Le acquisizioni più rilevanti hanno riguardato gli archivi di alcuni storici studi fotografici lodigiani. «Il primo è stato l’archivio di Nino Tronchini che aveva la sua attività in via San Martino. Lui era venuto a mancare nel 1953 e il dipendente che ne aveva rilevato lo studio non aveva interesse che per gli aspetti commerciali, cioè servizi per matrimoni, battesimi e cose così. Da quel signore ho rilevato almeno 300mila negativi fra cui moltissimi scatti di cronaca relativi agli anni dal 1935 al 1953, una documentazione interessantissima specie sugli anni del regime a Lodi. Per non parlare dell’enorme attrezzatura, persino dell’arredamento d’epoca. Non le dico il costo…».

L’archivio Tronchini è stato solo l’inizio. «Già, perché a Lodi c’era un altro studio molto conosciuto, quello di Celso Soliani, per tutti Foto Celso, che alla morte del titolare era passato anche in questo caso al suo dipendente Antonio Merlini. Quando anche Merlini purtroppo è deceduto, c’era tutto quel patrimonio di 500mila immagini, oltre agli arredi e alle “macchine”, che rischiava di andare disperso: così ho rilevato anche quello. Poi è stata la volta degli archivi di Peveri e di Naborri, tutti e due di San Colombano».

Anno dopo anno la collezione di Bescapè si è arricchita di nuovi tesori. «Molto materiale è arrivato dagli archivi di famiglia. Devo davvero ringraziare di cuore quanti, negli anni – e sono centinaia di persone –, hanno deciso di affidarmi i loro ricordi personali, perpetuandone così la memoria. Se parlo di tre milioni di immagini non vado lontano dal vero, forse sono anche di più – rivela Silvano -. Ho smesso di contarle da tempo. Molte le ho digitalizzate, la maggior parte sono ancora lì da scansionare. Hai voglia quanto tempo ci vorrebbe…. Però ci sono, non sono andate perdute, come quelle tante cartoline d’epoca che ci restituiscono il volto delle nostre città e paesi com’erano un secolo fa e oltre. Sono una testimonianza storica di un mondo passato, dall’Ottocento in poi. Ci ricordano come eravamo».

Curiosità, piacere, orgoglio sono i motori di una attività di decenni, impegnativa, anche dispendiosa, impagabilmente gratificante. «Ogni acquisto è una nuova scoperta – racconta Bescapè -, una continua sorpresa. Sono felice di aver salvato, con le mie foto, le mie cartoline, i miei documenti, un tesoro della memoria che sarebbe andato perduto».

Un patrimonio condiviso

Un patrimonio di cui Bescapè è giustamente geloso, ma che già oltre quarant’anni fa ha deciso in parte di condividere pubblicamente, fondando appunto il suo Museo della Fotografia. «Il primo ad offrimi una sede fu il commendator Oreste Carini, nell’antica Villa Litta di Orio. Era il 1980. Una dozzina d’anni più tardi Ferruccio Pallavera, allora sindaco di Cavenago d’Adda, mi offrì alcuni spazi nel contesto di una ristrutturazione del municipio. E da allora il museo è lì».

Quattro sale più un lungo corridoio, le pareti tappezzate di immagini, le vetrine con macchine fotografiche, ingranditori, attrezzature di ogni tipo, per dilettanti e professionisti, alcune davvero preziosissime. C’è di tutto al museo, non si finirebbe mai di guardare. Bescapè ha persino riallestito lo studio fotografico di Tronchini, con bancone, vetrine, apparecchi, tutto in stile anni Trenta. E una sala posa, come si usava una volta, con un magnifico fondale d’epoca. Lì accanto la ricostruzione di una vecchia camera oscura.

Su una parete le immagini dei più conosciuti fotografi lodigiani: ci sono anche Celso e Tronchini, ma ce n’è pure uno – siamo a fine Ottocento o giù di lì – di cui si è perso il nome, che rivolge il suo sguardo severo oltre l’orizzonte. E poi album di famiglia, manifesti, proiettori cinematografici provenienti dalle sale parrocchiali di Castiglione d’Adda, Cavenago e Miradolo. E naturalmente fotografie, tante fotografie. «Ce n’è una di cui sono particolarmente orgoglioso – sottolinea Bescapè -: è la più antica immagine del ponte sull’Adda a Lodi, risale al 1864. Quella cui ero più affezionato era però una fotografia delle Regina Margherita di Savoia, che purtroppo non ho più. Ed è meglio che non dica com’è sparita».

Un tesoro da difendere

Il museo di Cavenago è una finestra sull’affascinante mondo di Bescapè. Tutto il resto è nell’archivio personale. Scatole su scatole di materiale, solo in parte registrato nelle memorie del computer. Quasi non ricorda neppure lui tutto quel che c’è in quell’immensa raccolta. Se Silvano ti fa navigare tra le cartelle del suo pc ti puoi imbattere nelle cose più diverse e sorprendenti, come quell’immagine di un piattino in ceramica con il disegno di un neonato con due teste, stupefacente ricordo di un parto siamese, risalente alla Lodi di fine Settecento. O di un pulcino con quattro zampe. C’è da perderci la testa. «Ormai sono vecchio – sbuffa Bescapè, la cui energia non sembra per la verità essere affatto in riserva – e non so cosa ne sarà di tutte queste cose. Ci vorrebbe qualcuno che se ne occupasse, ma non finché ci sono io: se le perdessi, me ne andrei prima del tempo».

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