
Maurizio Fenini, “one man band” alla ricerca di se stesso
L’intervista Un musicista lodigiano che guarda oltre oceano e oltre il blues per trovare la propria identità
A un certo punto, mentre parliamo nella quiete silenziosa del suo appartamento, Maurizio Fenini si sposta nel piccolo salotto, dove riposa una lunga schiera di chitarre. Ne prende una, un dobro per la precisione, tutto cromato, e inizia a improvvisare. Mentre suona, i suoi occhi si perdono lontano, ed è chiaro a chiunque lo guardi che la musica è la sua via di fuga, il suo sogno e la sua passione, il suo modo di esprimersi e la sua vita.
Tutto è cominciato quasi per caso: «Ero un adolescente, andavo a casa di un amico a giocare, ma ero incuriosito da quelle chitarre di suo padre appoggiate sul divano, così ogni tanto ne prendevo una, quasi per giocare. Quando suo padre lo notò, mi propose di darmi qualche lezione, e lì con Angelo Vergnaghi iniziò in un certo senso il mio percorso». Dopodiché, è arrivato il momento di Musicarte e delle lezioni con Luca Grazioli, «grande chitarrista e grande insegnate che mi ha fatto crescere molto», e ancora con Fabio Vitiello a Milano. «Passavo giorni interi a suonare, volevo campare di musica, anche se sapevo che non sarebbe stato facile».

E poi le prime esibizioni, i primi gruppi: «Andavamo alle prove a Codogno in treno, per me quelle due ore erano come un concerto a San Siro. Ho iniziato con il grunge, per poi passare un po’ al rock, ero in cerca della mia strada. Per me, la svolta è stata quando ho iniziato ad ascoltare Stevie Ray Vaughan: mi ha aperto un mondo e lì ho capito davvero cosa volevo fare».
Col tempo, è arrivato anche un altro “maestro”, con cui è nata poi una vera e propria amicizia: «Non avevo mai trovato la mia dimensione in un gruppo, così quando ho ascoltato Francesco Piu, polistrumentista e, per me, uno dei più grandi bluesman italiani al momento, ho capito che potevo buttarmi sull’acustico e trovare la mia identità. Ho voluto incontrarlo a tutti i costi, per capire il suo stile. Gli ho chiesto persino se potevo prendere lezioni da lui, compatibilmente con i suoi impegni, e ricordo ancora la prima lezione. Alla fine mi diede un album di Eric Clapton, Unplugged, e mi disse di ascoltarmelo per la lezione successiva. Io mi sono preparato un brano, volevo colpirlo, l’ho studiato e l’ho rifatto perfetto davanti a lui. Mi ha sorriso, mi ha detto: “È come se ti fossi alzato in piedi sulla sedia a recitarmi la poesia di Natale: tutto perfetto, ma non c’è niente di tuo”. Non basta recitare insomma, ma anche eseguendo brani di altri bisogna metterci l’anima. A volte, sarebbe più comodo fare la cover perfetta, prendi più like e più applausi, ma non fa per me».
Anche per questo, Maurizio Fenini è tiepido nel definirsi bluesman: «Posso ripetere quella poesia, per restare nella metafora, ma preferisco stare alla larga dalle definizioni, dalle etichette, anche perché ci sono un sacco di sfumature, che vanno dal folk al country. In generale posso parlare di musica “americana”. D’altronde, sarebbe ridicolo fare il bluesman e far finta che l’Adda sia il Mississippi, preferisco trovare il mio percorso. Ecco, quando ho fatto parte del gruppo tributo ai Lynyrd Skynyrd, ho legato molto con il cantante Gianluca Paterniti che è diventato poi il cantante degli Smokey Fingers. Fu lui a dirmi una cosa che non ho mai dimenticato: per fare qualcosa di tuo devi dimenticare tutto quello che hai imparato e liberarti dalle regole che ti sei imposto».
Qual è stato il percorso di Maurizio Fenini? «Per qualche anno mi sono dedicato soltanto alla musica, ho fatto tante date e vivevo di quello, poi è arrivato il Covid. È stato un momento difficilissimo per tanti, e quindi non voglio fare la gara a chi stava peggio, ma diciamo che anche per i lavoratori del mondo dello spettacolo non è stato un bel periodo: ho dovuto mollare e trovare un altro lavoro per mantenermi. Poi, dopo il Covid, secondo me anche il mondo della musica live è cambiato: a Lodi ad esempio non ci sono più locali dove si suona dal vivo, ha chiuso anche il Km298, che era un po’ un simbolo. Il mondo è cambiato».
I progetti, però, non mancano: «L’unica cosa che ho in mente, ora, è fare un album mio. Me l’hanno chiesto in tanti, e ho tante idee in testa, ma devo mettermi al lavoro per chiuderlo. Da una parte, il fatto di avere un altro lavoro è un limite, perché il tempo è quello che è, ma dall’altra potrebbe essere un punto di forza, perché non dipendo dalla logica del “piacere ad ogni costo”, e questo mi dà una libertà che, alla fine, penso sia la cosa più importante per scrivere musica che arrivi davvero alle persone. Magari a pochi, ma nel profondo».
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