Don Pierluigi Leva: quelle campane di “speranza” che hanno dato sollievo
a una comunità spaventata e ferita - La video-intervista completa

Covid Il parroco di Casalpusterlengo racconta i momenti più bui della pandemia nella chiesa rionale di Sant’Antonio che era stata trasformata in camera ardente per ospitare le salme dei troppi morti

Casalpusterlengo

«Chiudete il portone: se qualcuno passa e lo nota aperto entra di sicuro». È il richiamo di una piccola chiesa di quartiere che nei giorni più duri del Covid era diventata anche una camera ardente per accogliere le salme dei tanti, troppi, morti.

Prendiamo due sedie, le mettiamo al centro della navata, all’ombra della statua di Sant’Antonio Abate che qui a Casale, ogni 17 gennaio, festeggiano con grande trasporto, accendendo un enorme falò proprio davanti a questa chiesa.

Il parroco di Casalpusterlengo, don Perluigi Leva, è pronto con noi a riavvolgere la pellicola.

Parroco, le faccio vedere una fotografia. È stata scattata poche ore dopo l’istituzione della zona rossa. Proprio davanti a questa chiesa ci sono tre signore che osservano un annuncio funebre. Non c’è nessun altro. È appena venuto a mancare un giovane padre di famiglia e loro sono lì per lui. Sembra strano, ma è un funerale, solitamente un momento corale di dolore e di condivisione...

«In quei giorni i funerali sono stati drammatici. Proprio quei momenti, durante i quali condividere con i familiari l’esperienza del lutto, sono stati impossibilitati dal fatto che i distanziamenti e le proibizioni non permettevano le celebrazioni. Quelle immagini le ricordo molto bene, anche perché proprio in questa chiesa erano state spostate tutte le panche e avevamo accolto l’invito a custodire i feretri prima di essere portati nelle rispettive realtà. Perché non c’erano solo i defunti di Casale... Ricordo che la camera mortuaria dell’ospedale era stracolma e non sapevano più dove lasciare i corpi senza vita delle persone che morivano abbondantemente in quei giorni. Qui in questa chiesa siamo arrivati ad averne diciotto di bare e non potevamo lasciare aperto se non per le ditte di onoranze funebri. Ma aprire la porta e lasciare che anche qualcuno entrasse per dare un ultimo saluto voleva dire creare un movimento di persone tale che in quei giorni era davvero proibito».

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