Violenza, parole-choc di una 30enne

Pubblichiamo la testimonianza spedita in redazione da una donna lodigiana vittima di violenza, che nei giorni in cui si discute di femminicidio aiuta a comprendere come certi episodi, segnalati da telegiornali, quotidiani e settimanali, siano un problema che è davvero molto vicino a noi.

Gentile Direttore, le chiedo spazio per raccontare una storia rimasta sepolta per molto tempo. E lo faccio in giorni in cui, finalmente, i fari si sono accesi sulla sofferenza delle donne. Il rosso, come simbolo della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ha vinto sul nero del silenzio, quello che mangia l’anima di migliaia di vittime di stupri e violenze di ogni tipo, fisiche, psicologiche, economiche. La politica invoca leggi più efficaci per contrastare il femminicidio, facendo eco a quel che chiedono da anni le associazioni che si occupano ogni giorno delle vittime, che stanno loro accanto, che portano conforto e tutela davanti ad un dolore sordo che spesso stravolge intere esistenze.

P oi c’è la giustizia. O forse dovrei dire non c’è la giustizia. Perché leggere sui quotidiani che una ragazzina di 14 anni è stata stuprata da un branco di ragazzi a Molfetta, in un anfiteatro all’aperto, e che nessuno di questi carnefici ora è in carcere, fa riflettere. Questi «mostri» hanno tra i 20 e i 25 anni - all’epoca dei fatti avevano tra i 16 e i 24 anni - e dalle indagini è emerso che hanno più volte abusato della giovane, in gruppo. Sono tutti agli arresti domiciliari e, probabilmente, a breve, saranno liberi di compiere lo stesso delitto, senza nemmeno aver compreso la gravità delle loro azioni. Il procuratore aggiunto di Trani Francesco Giannella ha detto di fare «attenzione all’uso che si fa dei social network», perché su Facebook, uno dei più comuni luoghi pubblici virtuali, era stato aperto un profilo in cui la giovane, a sua insaputa, veniva dipinta come una ragazza facile, disposta a fare qualsiasi cosa. Quasi che, se Fb non fosse esistito, se la ragazza avesse fatto attenzione, tutto questo non sarebbe accaduto. Parole che innescano un meccanismo che, in una vittima, amplifica a dismisura un senso di colpa che già esiste come una delle conseguenze psicologiche più comuni tra chi ha subito violenza senza sapersi o potersi difendere.

Vivo a Lodi, sono una vittima di violenza e non l’ho mai denunciata. Oggi ho quasi 30 anni, sono laureata con lode, ho un lavoro che mi piace e un uomo accanto. All’apparenza non mi manca nulla, sono una donna realizzata e felice. Non è così.

Q uel che è accaduto ormai dieci anni fa mi ha distrutta, anche se le conseguenze di quella drammatica violenza, latenti per molto tempo, sono esplose otto anni dopo e oggi mi costringono a cure psicologiche e farmacologiche nel tentativo di superare la depressione, i sensi di colpa, i tentativi di suicidio.

Non ho denunciato perché ero giovane, non volevo deludere i miei genitori, pensavo fosse colpa mia. Non ho denunciato soprattutto perché avevo paura che la pena inflitta a chi mi ha strappato la dignità non sarebbe mai stata sufficiente a tenermi al sicuro per tutta la vita.

Sapevo che quell’uomo, se mai fosse finito in carcere, ne sarebbe uscito presto. E io forse avrei pagato con la vita la mia denuncia.

Non ho avuto coraggio, ma soprattutto ho avuto paura. Ecco, vorrei che nessuna ragazza sia più costretta a pagare con una vita ridotta a brandelli la paura di essere abbandonata da una giustizia che non tutela a sufficienza.

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