«Quei 12 anni di buio nella mia vita»

La vicenda di Piccioni, il primario del Pronto soccorso che perse la memoria: «Ero fermo al 2001, credevo che i miei due figli fossero ancora bambini»

Fermarsi

al danno anatomico

è sbagliato. La forza

di volontà va oltre.

Se la mia storia serve a qualcuno per superare

i momenti di sconforto la regalo volentieri

«Mi sono guardato allo specchio e mi sono messo a piangere». Erano passati 12 anni, ma lui, Pierdante Piccioni, primario del pronto soccorso prima di Lodi e ora di Codogno, non lo sapeva. L’ultima volta nella quale si era guardato allo specchio, secondo lui, era la mattina di giovedì 25 ottobre 2001: aveva 42 anni, stava accompagnando a scuola in macchina il suo bambino di 8, prima di raggiungere l’ospedale di Crema dove lavorava. Il tempo, per lui, si era fermato a quel giorno. Ma non era così.

Piccioni ha deciso di raccontare agli altri il dramma di una storia che presto vedrà la luce anche in un libro “Se mi fossi incontrato, non mi sarei riconosciuto”. In quelle ore, in quei mesi, Piccioni ha pensato davvero di tutto: mi stanno mentendo, questo non sono io, adesso scappo, la faccio finita. Il piano per togliersi la vita era già scritto nero su bianco. Un colpo di pistola e via. Ma alla fine ha combattuto, ha superato la depressione nella quale si era infilato e ce l’ha fatta. Volevano dargli la pensione di invalidità e metterlo in un angolo. Lui ha combattuto e, grazie ai suoi famigliari e a quanti gli hanno dato una mano, ce l’ha fatta.

«La mia - dice oggi - è la storia di un riscatto».

Il risveglio

Per lui che ha un buco di 12 anni vedersi così è stato un shock, ma gli altri lo vedono migliorato: l’aspetto è sempre il solito, ovvio, la risposta pronta e spigliata, ma il sorriso, la gentilezza e l’umanità sono aumentati.

«Erano le 7.30 del 31 marzo 2013 - spiega -, stavo andando al lavoro, da Pavia dove abito verso Lodi. Ho fatto un incidente in tangenziale, ma di quel giorno non ricordo più nulla. Mi sono svegliato intorno alle 3 del pomeriggio, in Pronto soccorso a Pavia. Facevo fatica a parlare e muovevo poco il braccio e la gamba destra. Subito ho pensato:“Mi è venuto un ictus”. Di fianco a me c’era il primario di neurochirurgia che conoscevo, ma non vedevo da qualche mese: “Caspita, in poco tempo, com’è diventato vecchio”. Si avvicina un collega del 118, stesso pensiero. Incominciano a chiedermi la data e io: “È il 25 ottobre 2001”. “Ma sei sicuro?”. “Sì sono sicuro”. Chiedo: “Ma cosa mi è successo?”. “Hai fatto un incidente”. “Ma ero da solo?”. “Sì”. “Ma i miei bambini?”. “Non ci sono più”. Il mio cuore si è spezzato».

“I bambini non ci sono più”

Il medico intendeva dire che i suoi figli non erano più bambini, ma ragazzi di oltre 20 anni. Piccioni pensava si fossero schiantati in macchina con lui. «I tuoi figli sono grandi. Ti chiamo tua moglie?”. “Sì”. “Perbacco - penso - si è tagliata i capelli e ha delle rughe in più”. “Avete avvisato Crema?”. “No, tu non lavori più a Crema”. Ero stupito e mi stupivo di vedere a mia volte gente stupita. Perché mi stanno mentendo e mi mentono anche i miei famigliari? Appena mi slegano scappo. Mi sembrava di essere in un film. “Vuoi vedere i tuoi figli?”. Entrano due ragazzi, uno con la barba, l’altro quasi. Io me li ricordavo di 8 e 11 anni. “È l’effetto della botta - mi dicevano -, poi la memoria ti torna. Ti ricoveriamo al Mondino”».

La faccio finita

Anche lì però le cose non vanno meglio.«Tutti mi chiedono la data del giorno e io mi arrabbio. Passo la notte in bianco, attaccato a un monitor. Il giorno dopo entra la primaria della stroke unit con la Provincia Pavese in mano». In prima pagina c’è la foto di Piccioni e il racconto dell’incidente. «“Cavolo - ho pensato -, allora è vero. Non possono essersi inventati anche questo”. Culturalmente, poi, per me, la carta stampata è la Bibbia. “Non sono in un film, non è fiction”. Da quel momento ho incominciato a stare zitto per capire. “Se è vero che è l’1 giugno del 2013 allora non ho 42 anni, ma 53 - mi sono detto -. Non posso che credere che quei due siano i miei figli”».

Quando i suoi colleghi andavano a trovarlo lui non li riconosceva. Le donne piangevano e lui era in imbarazzo.

Alla fine ha preso il cartoncino di una confezione di magliette, ha tracciato una riga nel mezzo e ha incominciato a segnare da un lato le persone che conosceva e dall’altro quelle che aveva scordato. «“Lei ha una sindrome post traumatica da stress”, mi spiegavano. “Ma perché - ho detto a mia moglie - i miei genitori non sono ancora venuti a trovarmi? Li hai avvisati?”. “Guarda che tua mamma è morta”. Per me è stato terribile, è come se avessi vissuto il lutto ex novo. pensavo che mia mamma fosse viva, volevo vederla e invece lei non c’era più».

E le brutte sorprese non erano finite. «Quando finalmente due giorni dopo l’incidente sono andato in bagno per lavarmi i capelli, ho incrociato la mia immagine allo specchio e mi sono messo a piangere. Mi ricordavo 42enne in splendida forma e mi ritrovavo con la barba sfatta e un po’ grigia».

Internet, cos’è?

Da quel momento Piccioni è stato sottoposto a test ed esami di tutti i tipi. Ragionavo ancora in lire e internet per me non esisteva. Conoscevo l’email e gli sms, ma su internet proprio zero. È stato il giorno dopo un ragazzo ricoverato vicino a me a svezzarmi. Siamo andati su Google con il suo telefono e mi ha fatto vedere tutto quello che mi riguardava. Ho scoperto che davvero lavoravo a Lodi e avevo partecipato a congressi di cui non sapevo». Qualsiasi persona incontrasse, Piccioni aveva paura. Pensava ce l’avessero con lui. «“Ho fatto il primario 7 anni a Lodi, magari ho combinato qualcosa e questo ce l’ha con me” - mi dicevo -. Allora stavo zitto. Ho passato 6 mesi così. Mi sentivo veramente un disabile. “Riguardati le cose su di te”, mi hanno detto ad un certo punto. Così ho scoperto di essere professore a contratto della scuola di specialità in medicina d’urgenza, di essere tra i tecnici del Ministero della Salute seduto al tavolo di lavoro sulle linee guida nazionali del triage, ho scoperto di aver proposto le nuove linee guida nazionali sull’osservazione breve (Obi) e di essere membro del direttivo nazionale dell’Academy medicine care. Da qui ho iniziato a dedicare tutte le mie mattinate allo studio, a vedere cosa era accaduto in campo medico in questi 12 anni. Avevo una voglia pazzesca di tornare a fare il medico». Questo fino a quando, 6 mesi dopo, Piccioni è stato inviato a fare la risonanza al Niguarda e la Pet al San Gerardo di Monza.

L’ennesima batosta

«Fino a quel momento il leit motiv era: “Hai una sindrome post traumatica da stress”. Dagli esami invece - racconta il primario - è emerso che avevo dei danni alle vie della memoria dove avevo preso il colpo». Scoprire che c’erano dei danni organici per Piccioni è stato un secondo trauma. «Se ho dei danni documentati - mi sono detto -allora la memoria non torna più. Con questi problemi sarò in grado di lavorare?».

È stato allora che Piccioni ha pensato davvero di farla finita. Aveva già programmato tutto, sono state le persone che gli volevano bene, la terapia famigliare e gli specialisti a fargli cambiare idea. «Arrivavo sempre in ritardo su tutto - dice -. I miei figli erano grandi e quando facevano qualcosa che non condividevo non avevo gli strumenti per riprenderli. Ora che capivo la strategia loro stavano già facendo qualcos’altro. perdevo sempre il momento.

“Chiedi la pensione di invalidità”, mi hanno detto un giorno. Dentro di me è scattato qualcosa: volevo provare, non conta il danno che si ha nel cervello, ma quello che sai fare. È come se un giocoliere che sa lanciare 7 palline in aria, nel momento in cui perdesse due dita gli dicessero: “Non puoi più lanciare le palline”. La burocrazia vorrebbe impedirti anche di provarci. Io, invece, volevo dimostrare che potevo farcela lo stesso. Pur capendo di avere un danno, per me era assurdo fermarsi all’aspetto anatomico. Avrei dovuto essere giudicato per quello che sapevo fare. E così ho iniziato questa personalissima battaglia. L’Azienda mi ha mandato a fare accertamenti dal medico del lavoro di Lodi e poi a Bergamo. Ho passato un anno tra test e prove con psicologi e neuropsicologi, dall’università di Pavia a Milano Niguarda e, alla fine, la risposta è stata: “Non solo puoi tornare a fare il medico, ma puoi fare anche il primario”. Tutto quello che ho perso in questi 12 anni, a livello scientifico, l’ho recuperato studiando. In tutto questo mi hanno dato una mano incredibile Lucio Raimondi e tutto l’ufficio di formazione. Aver trovato persone così mi ha aiutato praticamente ed emotivamente a riformarmi».

La rinascita esemplare

«Con il direttore generale Giuseppe Rossi- aggiunge - abbiamo poi concordato che avevo recuperato gli aspetti scientifici, ma non quelli emotivi. Era meglio ricominciare in un posto nuovo, non dove avevo lavorato prima». L’importante è che Piccioni non si è lasciato «abbattere da una diagnosi limitante. Ho voluto dimostrare a me e agli altri - racconta - che disabile lo sei quando tu smetti di combattere e di crederci. Sei disabile se sei convinto di esserlo. Si tratta di un’etichetta che ti appiccicano addosso. Avrei potuto mettermi in pensione, ma figuriamoci, io sono medico fin nel midollo. Lo faccio per passione. Mi piace prendermi cura degli altri. A qualcuno a cui hanno detto: “Non ce la fai”, io dico, invece: “Provaci, magari non ce la fai, però provaci” e io in due anni ce l’ho fatta”».

I VANTAGGI DELLA BOTTA

«Credo - dice Piccioni - che dovrò ringraziare la botta e la cicatrice che mi è rimasta. Mi hanno aperto un mondo nuovo e migliore. Mi sento orgoglioso di dare una mano a chi è etichettato come disabile. Quando incontro qualcuno che mi dice: “Ti ricordi?”. Io adesso rispondo: “Io non me lo ricordo, ricordamelo tu”. Vorrei che la mia storia fosse utile a qualcuno. Ho scritto anche un libro che attende di essere pubblicato. Racconto la mia vicenda per dare un senso a quello che mi è successo. Fermarsi al danno anatomico è sbagliato. La forza di volontà va oltre il danno. La mia è una storia di determinazione e se può essere utile la regalo. Davvero, come dice Obama: “We can”».

© RIPRODUZIONE RISERVATA