Omicidio Sali, tre anni senza verità

Martedì saranno passati tre anni esatti da quel maledetto 3 novembre 2012, quando tre spari violarono il silenzio di via del Tempio, risuonando smorzati fin nella chiesa della Maddalena dove era da poco iniziata la Messa prefestiva. Alle 17.40 un passante chiamò il 118: un uomo a terra, in agonia, con una pistola a fianco. Era Giovanni Sali, il carabiniere di quartiere, da tempo presenza fissa e rassicurante in centro, al punto che sembrava che ci fosse tutta Lodi poi ai suoi funerali, il duomo non bastava e quasi neppure piazza della Vittoria.

Quarantotto anni, due figlie che quel giorno ne avevano 15 e 21, una ex moglie con cui era in buoni rapporti, abitava a Cavenago d’Adda, dopo aveva lavorato a lungo nella stazione dell’Arma, prima di passare a quella di Lodi.

Gli investigatori, pressati fin da subito dalle mille domande dei cronisti e da quelle, poche ma accorate, dei parenti, di risposte ne hanno date pochissime. Ad esempio, che a ucciderlo colpendolo al torace a bruciapelo sono stati i proiettili della sua pistola d’ordinanza, rimasta ancora legata al cordino. Tutto quello che hanno raccolto Ris, Ros e Racis resta “top secret”. Come d’obbligo, dato che l’indagine è ancora aperta.

«Tenere viva questa inchiesta è per me come tenere viva la fiammella della speranza», ha dichiarato al riguardo recentemente il procuratore di Lodi Vincenzo Russo. Che, arrivato in viale Milano il 17 gennaio 2013, aveva ripreso in mano tutto il lavoro del suo precedecessore Armando Spataro (uno dei magistrati che sconfissero le Br, ndr) per rimettersi a cercare il bandolo di un fatto tanto grave: la morte violenta in servizio di un carabiniere di quartiere, la prima e l’unica in Italia.

L’unico aggiornamento riguarda il fatto che non ci sono indizi certi che possano portare a escludere, tra le tante ipotesi, il suicidio.

«Ma una persona che esce di casa per andare a togliersi la vita si prepara la pasta pesata e la pentola d’acqua per la cena?», obietta con fermezza la figlia maggiore Erica. «Abitava da solo, era appassionato di caccia, aveva mille altre occasioni se voleva togliersi la vita. Certo non in una via dove poteva passare qualcuno, anche salvarlo. Ma secondo me - prosegue la figlia di Sali - lui non ci pensava proprio. Era sereno anche quel giorno, non gli era successo nulla che potesse agitarlo, amava come sempre il suo lavoro, e, che io sappia, non aveva nemici. Voleva un bene infinito alle sue figlie e io mi sarei accorta, conoscendolo, se ci fosse stato qualcosa che non andava».

In famiglia hanno provato a darsi delle spiegazioni: «Tante ipotesi - prosegue Erica - ma tutte campate per aria. Ci sembra invece anomalo tutto questo silenzio, certo, la pioggia cancellò tracce e non aiutò. Ma ci domandiamo anche perché l’indagine sia ancora aperta. Mi auguro che ci pensi mio papà, da lassù».

Che sia voluto morire in servizio perché i suoi familiari avessero poi un indennizzo? «Assurdo - risponde la figlia -, quelli sono previsti solo per le vittime del dovere, sono poca cosa, come posti riservati nei concorsi pubblici, e niente vale quanto un papà. E ci deve essere un’indagine che accerta che si tratta di vittime del dovere».

Altro lutto nell’Arma, la sera del 6 dicembre 2012, il comandante della stazione di Zelo Buon Persico Pasquale Lomuscio suicida in caserma. Avevano lavorato assieme a Cavenago anni prima. «Erano amici - ricorda Erica Sali -. Ricordo che una sera, a metà settimana, c’era la Messa di suffragio per mio papà a Cavenago e sono venuti anche Lomuscio e la moglie. Lui mi disse: “Mi raccomando, per qualsiasi cosa io ci sono”. Proprio il giorno dopo, se non ricordo male, mia mamma mi telefonò per dirmi quello che gli era successo. Inspiegabile: aveva anche un figlio piccolo. Forse aveva preoccupazioni personali. Ma per quella vicenda comunque c’è una verità giudiziaria».

La procura ha però escluso legami tra i due gravi episodi.

«Io so che ancora oggi non ci arrivano risposte e che le cose le sappiamo dai giornali. Ad esempio a casa di mio papà c’era il mio computer, che a volte usava anche lui: quando ho chiesto, a uno dei primi interrogatori, dove fosse finito, un carabiniere mi disse: “Non possiamo rispondere”. Lo tengano, se serve per la verità. Ma non ho neppure un verbale di sequestro».

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