Lodi, «il laboratorio è come una famiglia»

“Lella” Vignati, da 30 anni analizza tamponi, maneggia virus e provette, elabora risultati. Ora va in pensione, ma fa fatica a lasciare il suo gruppo

Trent’anni ad analizzare tamponi, selezionare virus e maneggiare provette. E adesso, quando pensa che deve andare in pensione, ingoia amaro e si commuove. Luisa Vignati, per tutti Lella, di Lodi, 62 anni, tecnica del laboratorio di biologia molecolare, è definita dal suo responsabile Alberto Degiuli, «colonna» o anche «cemento». «L’ospedale - commenta - è come la mia famiglia». Lì, nel laboratorio del centro trasfusionale del Maggiore, lavoravano come colleghi, in questa pandemia sono diventati amici e anche famiglia. Lo dice lei e lo ribadisce il suo responsabile. Nessuno riesce a convincerla a farsi fare una foto da sola. «Assolutamente no, solo con il resto dell’equipe», dice. Ed è risoluta. Lei si vede solo così, insieme agli altri.

«L’esperienza del Covid - racconta - ci è capitata tra capo e collo, mi ha fatto confrontare con qualcosa di inaspettato. Siamo stati supportati dalla dottoressa Sidoli e dal dottor Degiuli. Abbiamo ricevuto tutti i dispositivi di protezione individuale e siamo partiti con questa avventura che non sapevamo dove ci avrebbe portati».

Il 14 marzo, tra l’altro, la tecnica si è contagiata, ma fremeva per tornare. «Ero a casa con un pensiero doppio. Intanto dovevo tutelare mio marito - dice - e poi pensavo a loro, qua in ospedale. Dopo tanti anni sai che nei momenti difficili bisogna essere qui insieme, a lavorare. Dopo 14 giorni sono tornata. Arrivavano montagne e montagne di tamponi. Abbiamo dovuto organizzare tutto il percorso, è stato come costruire una casa». Il 20 febbraio Vignati era di turno quando è arrivata la notizia del primo caso di Coronavirus. «Lavorando in laboratorio sappiamo cos’è una pandemia, cos’è un virus - afferma -, ma Codogno è dietro l’angolo. “Ce l’abbiamo qui. Cosa facciamo?”. Ci siamo confrontati con il nostro primario, ci ha subito spiegato come sarebbe cambiato il nostro lavoro. Quando c’è un’emergenza non c’è mai nessuno che si tira indietro. Siamo sempre stati insieme per dare quello che ci chiedevano. L’abbiamo sempre fatto. Da colleghi siamo diventati amici. Abbiamo vissuto tante ore insieme, più qui che a casa». Gli occhi le diventano lucidi. «Sono a fine carriera lavorativa - magona - e mi dispiace lasciare perché la situazione non è tranquilla. Non è facile e non è facile trovare un ambiente famigliare come questo». I tecnici non sono tanto riconosciuti, eppure rischiano anche loro. Rischiano quando aprono il tappo della provetta per prendere il tampone, rischiano se ne cade una goccia, non lavorano sotto cappa o non hanno il camice. Guai. A fare l’analisi è il tecnico, poi il laureato firma il referto: l’esito deve essere corretto perché poi arriva al paziente.

«A marzo - racconta - arrivavano 600 tamponi al giorno. Il virus era tanto, non passava mai. Eravamo presi dallo sconforto, non sapevamo quando sarebbe finita, poi qualcuno di noi faceva una battuta e si andava avanti a lavorare. Mai nessuno si è lamentato. La speranza, guardando i risultati, era che i positivi diminuissero. In quei momenti abbiamo sempre cercato tutti di non prendere impegni personali, sapevamo che c’era qualcosa di importante da fare qui. Adesso, per consolarmi, provo a pensare che in pensione potrò andare in palestra, ma neanche questo è sufficiente a farmi star meglio».

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