Lodi, Cambiè, 38 anni in ospedale VIDEO

Il primario del centro trasfusionale: «Abbiamo ideato il gel piastrinico per curare le lesioni, efficace e a basso costo, ma è ancora poco conosciuto dai colleghi»

Va in pensione a fine mese, ma non smetterà di essere medico, perché «non è il rapporto di lavoro che ti fa essere medico, si è medici dentro».

Giuseppe Cambiè, 63 anni, è direttore del centro trasfusionale dell’ospedale Maggiore dal 2006, responsabile dall’anno scorso della diagnostica molecolare del Covid e del laboratorio analisi e da gennaio 2021 direttore del dipartimento servizi. «Ci sono tante opportunità - dice -, per dare un servizio all’azienda».

Cambiè, c’è da giurarlo, dopo la pensione non smetterà di studiare, né di restare a disposizione dei suoi pazienti. Il dottore, poi è direttore sanitario dell’Avis regionale e fondatore dell’associazione di volontariato “Patto”. Non avrà tempo di annoiarsi.

Dottore, lei ha ricevuto il riconoscimento, il 2 giugno...

«Sì, un premio condiviso con tutte le persone che credono in quello che fanno e lo fanno con passione. Sono quelli che lavorano nel sistema pubblico e che danno il meglio nei momenti di difficoltà».

Da quanto lavora a Lodi?

«Ho compiuto 63 anni. Sono arrivato nell’83, appena laureato. Sapevo che il mio ex primario, il professor Guglielmo Bedarida, cercava un giovane assistente e così mi sono presentato. Da allora, fanno più di 38 anni di servizio qui. Ho riscattato i 6 anni dell’università e sono andato in pensione. Anzi, gli anni sarebbero scaduti l’anno scorso, ma poi sono rimasto».

È rimasto per la pandemia?

«Avevo già deciso prima, perché volevo terminare due studi che avevo avviato: uno studio regionale sulle reazioni avverse alla donazione di plasma in aferesi, per prevenire la comparsa dei malori e un altro per ridurre la necessità di trasfusione nei pazienti chirurgici».

Li ha terminati?

«Assolutamente no. Il 20 febbraio è successo quello che è successo, mi sono trovato nell’occhio del ciclone e i due studi sono al punto di prima. Anzi, se ne è aggiunto anche un terzo sul plasma iperimmune. È stato un anno intenso».

È cambiato quello che fa adesso, dottore, rispetto agli inizi?

«Gli anni tra l’83 e l’89 sono stati decisivi in termini di formazione per me. Prima che il professor Bedarida ci lasciasse, lavoravamo nei campi che appassionavano molto il professore, come lo studio delle malattie virali trasmissibili con il sangue. Poi,tra l’89 e il 2006 il riferimento trasfusionale è diventato San Donato e quindi ci siamo dovuti dare da fare a riorganizzare le attività. Dal 2006 ad oggi abbiamo cercato di mantenere le competenze del servizio e, possibilmente, implementarle».

Che valore aggiunto avete portato all’attività?

«Siamo stati tra i primi, per esempio, a usare l’anticore, un anticorpo contro il virus dell’epatite B, come test di screening nei donatori. Ora è riconosciuto a livello regionale, ma noi abbiamo dovuto battagliare per anni perché venisse condiviso: in fondo trovare dei virus riduce il numero dei donatori, per questo abbiamo fatto fatica. Ora è accettato da tutti. Poi siamo stati tra i punti di riferimento, a livello nazionale, in campo sierologico e molecolare, per i protocolli di screening dei donatori. Abbiamo sviluppato, inoltre, un sistema economico per la produzione di gel piastrinico in circuito chiuso, sia da donatore che da paziente. Il gel piastrinico è un emocomponente usato per la guarigione delle lesioni cutanee e delle mucose, su base traumatica, post infettiva, o anche le piaghe da decubito. Ci sono sistemi molto costosi che ne producono poco. Il nostro era economico e ne produceva tanto. In realtà è ancora poco richiesto, forse perché i colleghi del territorio non lo conoscono, ma è importante. Il trasfusionale poi è stato tra i precursori nella reazione di una correlazione informatica tra le caratteristiche dei donatori e gli emocomponenti prodotti dalla loro donazione. Abbiamo creato, poi, un cruscotto per il monitoraggio del Pbn. Il trasfusionale di Lodi è stato tra i primi in Italia a fare screening sui donatori per differenziare i soggetti immuni in grado di donare plasma iperimmune per il Covid. Abbiamo sempre lavorato in silenzio, ma abbiamo fatto tante cose».

Trentotto anni a Lodi sono tanti...

«Sono entrato quando avevo 26 anni. Qui sono cresciuto, sia dal punto di vista professionale che umano. Da tutti i colleghi, ma proprio da tutti, ho imparato qualcosa e spero di aver dato qualcosa anch’io a tutti loro».

Vi occupate solo di sangue?

«Da sempre abbiamo un ambulatorio giornaliero, per i pazienti ematologici, affetti da anemie, disturbi della coagulazione e pazienti allergici. Abbiamo 15 pazienti ogni mattina, sabato compreso, circa 4mila 500 all’anno. Moltiplicati per 40 anni, parliamo di circa 200mila pazienti passati di qui. Tante persone, tante storie che ti porti dentro e non puoi dimenticare».

Cosa rimane di più di questa esperienza?

«Le persone e le relazioni».

Adesso cosa farà?

«Pensavo di mettermi a disposizione per l’attività ambulatoriale, se qualcuno avesse bisogno».

Qual è il suo ultimo giorno di lavoro?

«Il 30 giugno, così ho l’estate davanti per scordare il dispiacere».

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