
Ipermercati aperti, un coro di “no”
Clienti e dipendenti uniti contro la liberalizzazione
Poter fare la spesa sette giorni su sette, dal mattino alla sera. Comodo, certo, ma si può fare a meno. Anzi, si deve. Almeno secondo i lodigiani interpellati ieri nei pressi dei due centri commerciali Bennet della provincia, a Pieve e a San Martino. Ieri, primo giorno del nuovo “corso” del Bennet, che ha recepito in pieno le liberalizzazioni sul commercio del governo Monti, scegliendo di tenere le porte aperte 365 giorni l’anno, domeniche e festivi compresi, il parcheggio a metà mattina si riempiva lentamente, ma con continuità. Tra gli stalli per l’auto e l’ingresso, però, la decisione del colosso della grande distribuzione faceva discutere. Non convinti i clienti e preoccupanti i dipendenti; questi gli umori nelle due gallerie nella prima delle aperture domenicali non straordinarie, che dallo scorso 6 gennaio sono lo standard dei due centri. «Penso che se ne potrebbe fare benissimo a meno - commenta Dolores Galmossi di Livraga - : c’erano già le aperture serali per andare incontro a chi non poteva far la spesa in altri momenti. Questa scelta rischia solo di mettere in difficoltà i dipendenti che non possono far fronte a un simile e forzato “turn over”. E poi non credo che ci sarà più gente nei centri commerciali». Che per i lavoratori non sia una «bella notizia» ne è convito anche Danilo Monfredini di Lodi. «Forse per chi affolla i centri commerciali la domenica è positivo, di certo per i lavoratori non è una buona notizia - argomenta -: i supermercati sono già diventati dei punti di ritrovo che svuotano le piazze. Cosa succederà in futuro? Se facciamo poi il conto di quanti supermercati ci sono in provincia di Lodi per numero di abitanti, è semplice intuire che sono già troppi».
Solidarietà ai dipendenti anche da Fiorenzo Guerrini di Livraga («Sinceramente non so come faranno a organizzarsi e a conciliare vita e lavoro») e da Carolina Arcuri, milanese di ritorno dalla vacanze delle festività, che si è fermata per un veloce “pit stop” al centro commerciale. «Personalmente non sono d’accordo - dice - : sono una persona che lavora e non potrei tollerare che anche il giorno che io considero sacro, perché dedicato alla mia famiglia, sia legato al lavoro. Non è giusto. I dipendenti hanno tutto il diritto di riposarsi». Savino Delizi di Orio, invece, non la pensa così. E anzi auspica che la “rivoluzione” porti qualche beneficio proprio a chi sarà impegnato nelle corsie del supermercato o dietro alle casse. «In un momento di crisi poter lavorare di più sarà un vantaggio - spiega - , mentre trovare il supermercato sempre aperto per noi è comodo. Faremo la spesa quando avremo davvero tempo a disposizione, domenica compresa». Che per i clienti sia un vantaggio in termini di possibilità ne è convinto anche Calogero Limoncella, di Massalengo, che però ribadisce preoccupazioni e solidarietà per i lavoratori. La speranza del giovane Mario Schirru di Lodi è che cambiare le regole serva a «incentivare nuove assunzioni» e ad «abbassare i prezzi per attirare i clienti». Ma tra le voci di chi è alle prese con carrello e lista della spesa vincono i “no”. Come quello di Fereira Ferrari di Brembio («per noi è comodo, ma non migliorerà le vendite e ci rimetteranno i lavoratori») e di Monica Milia di Lodi («non sono d’accordo soprattutto per chi lavora qui»). O di Angelo Grazioli di Fombio. «Sono contrario, anzi contrarissimo - specifica -: che bisogno c’è di andare a prendere le zucchine alle 11 di sera? Aumentare i giorni di apertura non fa lievitare anche i soldi che abbiamo nel portafoglio. Se abbiamo 50 euro da spendere, quelli sono. E poi questi orari non faranno altro che danneggiare i lavoratori, non ci saranno nuove assunzioni». Con il rischio, secondo Rocco Paciello di Borgo San Giovanni, di creare nuovi disoccupati. «Per esempio tra i titolari dei piccoli negozi del paese - spiega - : la flessibilità negli orari va bene, ma dare la possibilità ai grandi di tenere sempre aperto, significa dare l’ennesima batosta ai piccoli. Senza contare la fine che faranno quelle povere ragazze alle casse, già schiave di orari impossibili. Io ho 64 anni e penso che di tutti i diritti acquisiti sul lavoro dalla nostra generazione, ormai non sia rimasto nulla».
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