IL CASO DEI PLATANI «Una decisione del genere non può dipendere da un solo parere, pur dotato di competenze»

Pubblichiamo l’intervento di Michela Sfondrini, ex consigliera di palazzo Broletto e da sempre in prima linea nelle battaglie per la difesa dell’ambiente, sulla vicenda dei platani di viale Trento Trieste a Lodi

La vicenda è nota: pochi giorni fa l’amministrazione comunale ha annunciato il taglio di nove platani, da decine di anni presenti in viale Trento Trieste, dopo la richiesta avanzata da Ferrovie Italiane a causa della loro collocazione eccessivamente a ridosso delle linea ferroviaria e dopo l’esito della perizia agronomica, affidata alla società Demetra, che ne ha certificata la pericolosità. Rammarico da parte di tutti. Come potrebbe essere diversamente? Sono stata presa dallo sconforto, mi sono fermata a riflettere e ora mi permetto di invitare i nostri amministratori a non avere fretta nel compiere l’irreparabile. O, se ciò si rivelerà davvero necessario, a segnare un cambio di passo deciso e definitivo rispetto alle pratiche messe in campo da sempre: poche, risicate piantine ad apparente compensazione per il sacrificio di piante adulte allocate in punti tutt’altro che marginali della città. Non stento a immaginare il loro disagio di fronte alla richiesta di Ferrovie (piante da tagliare per mancanza della distanza minima dalla linea ferroviaria la cui richiesta do per scontato corrisponda al vero, tenuto conto della differenza tra binari in uso e binari morti nello spazio corrispondente della stazione) e suppongo che il senso dell’incarico per lo svolgimento della perizia sui platani fosse: “se risultasse che sono sani resisteremo alle pretese di taglio”. Invece l’esito è negativo, per tutte e nove le piante e la conclusione, logica e razionale, è: si taglierà. È qui che vorrei inserirmi con una breve riflessione allo scopo di avanzare un paio di proposte.

Innanzitutto: possibile che una decisione del genere possa dipendere da un solo parere, pur dotato di tutte le competenze del caso? Le stesse identiche competenze che hanno definito sacrificabili, perché ammalorati, decine di alberi siti all’Isola Carolina in tempi in cui era in discussione un progetto che avrebbe dovuto comportarne l’abbattimento. Competenze che possono portare a conclusioni differenti magari anche a seconda del quesito posto all’esperto: è in grado di assicurare la sicurezza della pianta anche di fronte a un evento atmosferico estremo? Oppure: pur in presenza di criticità è possibile con monitoraggi costanti e interventi conservativi o che ne riducano le dimensioni garantirne la sopravvivenza? Banalmente ho pensato che ognuno di noi, di fronte alla presunta necessità di un intervento chirurgico dal quale non si torna indietro, è quasi certo non si accontenti di un solo consulto ma cerchi il conforto di due pareri da mettere a confronto, senza nulla togliere alla serietà di chi ha espresso la sua opinione. Così dovrebbe essere anche in questo caso. Mi sembrerebbe il modo migliore di procedere e mi sentirei più tranquilla di fronte a una decisione che, se presa, non sarebbe certamente la fine del mondo eppure sarebbe la fine, quella sì, della geografia di un luogo che rimpiangeremo per com’era ma, soprattutto, sarà segno del fatto che forse, purtroppo, tutto cambia senza che nulla cambi, anche stavolta. Nel caso, però, in cui si dovesse confermare l’esito della prima perizia credo vada ribadita con forza una evidenza, spesso ignorata: un albero tagliato di cento anni o giù di lì non può essere sostituito con un albero o una manciata di alberi di tre mesi. Per pochi e semplici motivi: un albero di cento anni è, demograficamente, il risultato della nascita, cento anni fa, di mille alberi. Di quei mille, statisticamente, ne sono morti cento all’anno nei primi cinque anni, cinquanta all’anno nei successivi cinque e poi ancora una decina nei quarant’anni successivi, cui vanno aggiunte le perdite determinate da eventi imprevedibili: fulmini, vento, malattie, tagli. Il risultato finale, dunque, è che cento anni dopo, ossia oggi, quei platani che potrebbero dover essere tagliati sono gli unici sopravvissuti a una selezione naturale di cui, a maggior ragione oggi, non possiamo non tenere conto. La strada più feconda, allora, potrebbe, dovrebbe essere quella di approvare una norma regolamentare che stabilisca, tassativamente, che a fronte dell’abbattimento di una grande pianta se ne ripiantino, a titolo di compensazione, almeno una cinquantina, ossia un numero che assicuri la sostituzione di quella perduta nel lasso di tempo anagrafico che le era proprio. Solo così, nel caso non si possa fare altrimenti, potrà esserci vera riparazione e potremo dire di avere fatto tutto quello che era nelle nostre possibilità per risarcire il “costo sociale” della perdita subita e che, finalmente, qualcosa sta cambiando o stiamo facendo il possibile perché camb i.

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