
I 100 anni sprint di Mario D’Amico: si regala la patente fino ai 101 e un’auto nuova
PIANISTA E YOUTUBER Nato a Monza, da anni risiede a Casele Landi, una vita da raccontare con la passione per la musica e per i social
All’ultima visita per il rinnovo della patente ha dovuto eseguire dei calcoli, riconoscere dei colori e rispondere alla domanda su quale fosse l’attuale presidente della Repubblica, che due automobilisti prima di lui se ne sono usciti dallo studio pratiche auto a Codogno, bofonchiando se era quella una domanda da fare. Bocciati.
. Caselle Landi: a 100 anni automobilista e youtuber
Domenica 12 ottobre Mario D’Amico compirà 100 anni, ma se ne sente la metà, e anche la dottoressa che nel 2023 lo ha ripromosso alla guida, non è riuscita a trattenersi da una battuta: «Se anche volessi non potrei bocciarla. Ha tutte le carte in regola per il rinnovo fino a 101 anni». Già perché questo signore dalla barba bianca e il sorriso buono, nato a Monza il 12 ottobre 1925 da una coppia di siciliani venuti al nord in cerca di lavoro, di lasciare la macchina in cortile non ci pensa proprio. L’ha cambiata anzi un anno fa: una vecchia Punto con tredici anni di attività, che rischiava di lasciare a piedi lui e la moglie Luciana, sempre al fianco del marito: «Io poi alle macchine mi affeziono» sorride lei.
Adesso nel giardinetto della loro casa a Caselle Landi, il buen retiro che hanno scelto per sfuggire al traffico e al rumore di Monza, c’è parcheggiata una Dacia Sandero bianca. Perfetta per andare a fare la spesa, a messa e dal medico quando serve. Ma anche a far visita ai parenti nella “città dell’autodromo”. E sarà un caso, ma «ha anche il piede pesante», scherza Luciana descrivendo il marito al volante, salvo ammettere che pure lei amava la guida sprint, prima di cederla a lui. E che comunque, in sessantacinque anni da patentato, il marito non ha mai fatto un incidente. Sul suo curriculum compare solo una multa presa a Piacenza, per un parcheggio su un marciapiede. Che poi D’Amico era a bordo ad aspettare la moglie, corsa per una capatina in libreria. L’ammenda dei vigili però era arrivata implacabile. «Ho imparato a guidare a tredici anni, quando facevo il garagista alla autorimessa Nessi di Monza - racconta il centenario, srotolando i ricordi di una vita che è mille vite -. Poi ho preso la patente dopo i trent’anni, quando eravamo già sposati».
Prima c’erano la bicicletta e una valigia di sogni. La Seconda Guerra Mondiale sorprende Mario che è un ragazzo. Una sera, all’uscita dal cinema con gli amici, i fascisti lo arrestano e deve scegliere dove andare ai lavori “forzati”: al Vallo Atlantico o alla Breda. D’Amico sceglie la Società Italiana Ernesto Breda per Costruzioni Meccaniche, a Milano, vicino a casa. «Facevo il garzone e dovevo estrarre le sbarre di ferro rovente dai forni, che venivano usate per fare le canne da fucile – ricorda -, ma ero delicato e mi s’infiammarono gli occhi, per cui dopo di lì scelsi di entrare nella polizia ferroviaria». In stazione arrivano i convogli con le armi e il sale, proveniente dalla miniera di Salisburgo. Sono “oro” e ha il compito di vigilare. Ma una notte i partigiani del Gap assaltano le carrozze, aprono i vagoni e fanno sparire le armi. Per quell’episodio D’Amico e i colleghi vengono interrogati dalle SS, alcuni di loro non ne usciranno vivi, mentre lui finisce in carcere. Sei mesi a San Vittore. Non è la sola gattabuia di cui Mario conosce però l’odore. È il terrore nero. Poi arriva la Liberazione e D’Amico ripara a Ronco Briantino, da un amico, dove il padre va a prenderlo in bicicletta. Cento chilometri di pedalata, per riportarlo a casa a Monza. Tuttavia i guai non sono ancora finiti. Perché da agente di polizia ferroviaria, temendo di essere preso per un fascista e finito, si sbarazza dei documenti. Così è un senza nome e un senza patria e il destino gli gioca un altro colpo baro: in municipio a Monza gli fanno il quarto grado per rifare la carta d’identità, dubitano, domandando: “Chi è lei?”. “Mario D’Amico” risponde. Ma come credergli? Poi nel palazzo comunale entra un vecchio conoscente, Mario pensa, “sono salvo”, “chiedete a lui, chiedete a lui”. L’altro però volta la testa dall’altra parte. Finge di non conoscerlo. E D’Amico è ristretto in via Mentana, in una caserma trasformata in prigione, dove sono richiusi gli “irregolari” come lui, che è senza documenti. «Avevamo paura, avevamo tutti paura. Un ladro di professione, che aveva il permesso di uscire e andava a comprare le sigarette agli altri detenuti, parlandomi di Dio mi disse che non dovevo temere», racconta, mentre i ricordi a tratti si attorcigliano, e si fa però strada la fede. Quella coltivata nel tempo e che non lo abbandonerà mai. Il fondamento delle scelte che imprimono una piega imprevista a questa storia. «Dopo aver visto il mondo “sbandare”, volevo fare qualcosa di buono – prosegue -. Al Parco di Monza c’era il campo degli americani e suonavo jazz con i neri... ho deciso che volevo fare musica». A introdurlo era stato il fratello Renato, proprio quel fratello che insieme all’altro, Aurelio, morirono nella campagna di Russia. Renato intuisce che Mario ha l’orecchio assoluto e lo porta nella banda di Monza, dove inizia suonando la tromba. Così, finita la guerra, quando deve decidere del suo futuro, Mario si iscrive al conservatorio a Milano. In famiglia non ci sono soldi, ma con quelli che guadagna d’estate suonando nei grandi alberghi delle località di mare e la sera nelle balere, spedisce una parte a casa e tiene l’altra per sé, per mantenersi agli studi. «Volevo iscrivermi a pianoforte, ma era tutto pieno, così ho preso un diploma in clarinetto, un altro in strumentazione per bande, e per un esame non ho ultimato quello in composizione. All’esame di drammaturgia c’era Quasimodo ( il poeta , ndr), che mi ha fatto i complimenti - spiega -. A quel tempo avevo bisogno di guadagnare e mi era arrivata un’offerta di lavoro alla Voce del Padrone». A segnalargli che la casa discografica cerca un regista fonografico è un collega del Conservatorio. Il compositore Giorgio Ghisleri. Per Mario è la svolta. «Facevo da “copia” al direttore d’orchestra, dovevo sovraintendere all’incisione su disco. Poi a casa, il sabato e la domenica e anche la notte componevo». Al pianoforte, da autodidatta. «Alla “Voce del Padrone” ogni settimana si teneva una riunione con i dirigenti e successe una cosa buffa – ricorda -. Il settore dei bambini non era considerato come vendita, fui io a offrirmi di curarlo e mi sono trovato a musicare le musiche di Topo Gigio». Sono 147 le composizioni musicali scritte da Mario D’Amico. E tutte registrate alla Siae. Tutte tranne una, quella del romanzo “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” di Dino Buzzati, nella trasposizione di Gianni Colla con i burattini, andata in scena al Teatro dell’Arte di Milano e a Venezia.
Oggi, all’alba del suo centesimo compleanno, questo super nonno (ha cinque figli e sedici nipoti) suona ancora il pianoforte, ha pubblicato un libro su Amazon dal titolo “La mia vita per la musica” e ne ha in cantiere un altro. Ha un profilo Linkedin e un canale YouTube. Filmaker l’inseparabile moglie. «Ho continuato a scrivere e mi sono innamorato della ricerca della melodia infinita, come diceva Wagner – riflette -. La musica deve fare da tramite, mentre l’ascolti deve portare in alto». Una verticale alla cui base c’è una precisa visione del mondo, condivisa con l’amore della sua vita, Luciana, sposata a Lourdes durante un viaggio con l’Unitalsi. Lei assistente volontaria e lui barelliere, sposi in divisa “da lavoro”. C’era sempre lei, al suo fianco, la volta che in Spagna si ritrovarono fermi sotto il ponte di un’autostrada con l’auto a secco. Ma se è per quello erano rimasti senza benzina anche la notte della corsa al Mangiagalli per la nascita del loro terzo figlio. «Ci trovammo nel “deserto”, tutto buio, e senza i cellulari – ricordano marito e moglie incastrando pezzi di memoria -. Per fortuna c’era una pompa di benzina e il benzinaio viveva nell’appartamento sopra. Ci ha fatto carburante e siamo arrivati in ospedale». Il prossimo anno D’Amico dovrà sostenere una nuova visita per il rinnovo della patente. Stavolta, superato il secolo di vita, davanti a una commissione a Lodi. Al Conservatorio di Parma riuscì a passare l’esame da privatista suonando un organo con i pedali “disegnati” a terra. Che per azzeccarli dovette guardare dove metteva i piedi. Ma ricordava le note a menadito e andò alla grande. No, non ha paura.
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