Foroni porta la protesta da Calderoli

Parla per quasi 14 minuti, Pietro Foroni, e parla solo lui. Nel giorno in cui il consiglio dei ministri vara il disegno di legge costituzionale che avvia di fatto l’iter per la soppressione delle Province, a palazzo San Cristoforo l’unica “ribellione” pubblica arriva dal presidente. Nessun dibattito, in consiglio provinciale, quasi a voler esorcizzare lo spettro, sempre confuso ma sempre più concreto, della fine segnata, lavorando come se niente fosse. Un po’ per il «rispetto istituzionale» al quale un altro presidente, seppure “ex” come Lino Osvaldo Felissari, spiega di aver voluto lasciare il giusto spazio; e un po’ perché molto, se non tutto, è effettivamente già stato detto negli scorsi giorni.

Di qui, il solo «doveroso e dovuto intervento», introduce un Foroni subito scettico verso «quell’ente intermedio, di dubbia comprensione» al quale l’attuale Provincia dovrebbe lasciare spazio. E che così come sta nascendo, al numero uno di San Cristoforo non va giù. Pronto a riprendere la battaglia, già da lunedì, assieme al leader dell’Unione province italiana, Giuseppe Castiglioni, direttamente al tavolo del ministro e compagno di partito Roberto Calderoli; «senza posizioni di carattere conservativo, ma affinché le cose vengano dette con chiarezza e verità», spiega Foroni, prima di evocare «il deficit della democrazia» e dopo aver elencato una lunga serie di perplessità. Perplessità in buona parte già note e oggi ribadite, a partire dal «rifiuto assoluto del taglio degli sprechi» come giustificazione all’eutanasia, perché se davvero il costo delle province sulla “macchina Italia” è pari ai 500 milioni di euro annui stimati dalla Cgia di Mestre «è un’inezia che non conta nulla sui conti pubblici italiani»; ma anche strali, come quelli lanciati anche lunedì nel vertice delle province lombarde contro «l’astio e l’accanimento» dei grandi quotidiani nazionali, motivati dal fatto che «probabilmente siamo dei rompiscatole».

Quindi? Avanti per una riforma che garantisca comunque l’autonomia dei territori, e i servizi ai loro cittadini: e contro il rischio che, venuta meno una «classe di amministratori eletta dalla cittadinanza al centralismo statale si sostituisca un centralismo burocratico regionale, che decida solo sulla stretta attinenza delle normative, con tanti progetti magari consoni a singoli comuni o a parametri di legge, ma non ai territori». Il resto, sono tempi e contenuti incerti, come sottolinea a consiglio chiuso Felissari: «C’è il rischio che arrivino prima le elezioni del completamento dell’iter, perciò la prima cosa è vigilare che il parlamento operi con serietà e rigore. Ma certe funzioni di coordinamento devono rimanere». Non a caso, prima di ciò, Felissari aveva promesso di battersi «per gli spazi di autonomia che ci siamo conquistati», citando 40 anni riempiti da un «distillato di dignità al quale non sempre abbiamo espresso riconoscenza»; e sui quali il governo, ora, sta scrivendo la parola “fine”.

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