Coronavirus, la sanità che non c’è

Il territorio è stato abbandonato, la riforma non è stata applicata, a Lodi città si negava la presenza dei casi positivi

Lodi

“Mamma, basta piangere”. “Ancora? Ti prego”. Per giorni mio figlio 15enne, appollaiato nel soppalco del mio studio, a fare compiti e videolezioni, mentre io, in smartworking, cercavo di capire cosa stesse succedendo, mi attaccava. Per un figlio è insopportabile vedere la mamma che piange, si commuove, è triste. Capitava anche a me da bambina e anche adesso che sono adulta non è cambiato granché. “Ermanno, ma come faccio? Ma non riesci a capire che è grave quello che sta succedendo? Mi stanno parlando di vicende terribili”. E poi lo tediavo con tutti i dettagli. Ma lui cercava di proteggersi. I giornalisti raccolgono storie e le condividono con chi le racconta prima di raccontarle a loro volta. E se uno rilegge questi mesi mettendosi dall’altra parte il risultato non può che essere un fiume di emozioni.

Quello che ha fatto stare più male sono stati, credo, la solitudine, l’isolamento, i tanti decessi, ma anche la morte senza abbracci, la rielaborazione del lutto senza funerali e poi il rancore per tutto quello che non ha funzionato. Mentre scrivo, ancora adesso, mi sale il “magone”.

Cinque mesi dopo cerco di capire cosa non sia andato per il verso giusto. E ancora una volta mi sfilano di fronte le storie. Adesso quella di Alessandro. Sua mamma gli cade tra le braccia in arresto cardiaco, all’improvviso, nel quartiere di San Bernardo, a Lodi, ma il 118 è costantemente occupato. La mamma di Alessandro muore così, a 55 anni, mentre le autorità continuavano a dire, in quei giorni, di allertare il 112 in caso di sintomi respiratori. E le linee erano costantemente intasate.

Ce n’è un’altra che mi sta a cuore ed è quella relativa alle zone rosse. Perché non istituirne una anche a Lodi? “A Lodi non ci sono casi”, dicevano gli amministratori del capoluogo ai giornalisti. Eppure a Lodi i casi c’erano: contemporaneamente a quello che accadeva a Codogno, il 20 febbraio, al pronto soccorso del Maggiore c’erano altri due pazienti. Poi c’erano gli operatori che lavoravano a Lodi e vivevano in città. Ma la risposta degli amministratori era sempre quella. Poi sono arrivati il paziente dell’anagrafe, quello dell’Agenzia delle entrate. “Il focolaio è sempre quello della Bassa”, dicevano. Nella Bassa è stata aperta la zona rossa, a Lodi no.

Insieme alle criticità più macroscopiche, la mancanza di mascherine e camici per tutti gli operatori sanitari, i prezzi esorbitanti all’inizio per i cittadini, il caos delle norme per le case di riposo, le comunità e i centri per i disabili lasciati soli e senza tamponi per isolare i malati, ci sono stati i problemi burocratici, le trafile per farsi autorizzare dal comitato etico di Milano l’uso dei farmaci in ospedale, gli unici individuati per curare i malati che non avevano altre chance. E ancora la burocrazia per dare l’ok alla raccolta del plasma dai donatori, da trasfondere ai pazienti che stavano male e non guarivano.

In periodi di pandemia, gli ospedali sono, va da sé, dei grandi focolai. L’infezione da coronavirus ha messo in evidenza l’inconsistenza del sistema territoriale basato, prevalentemente, sui medici di medicina generale. Questi sono stati mandati allo sbando e in 4, in provincia di Lodi, non sono più tornati. I medici di famiglia che in altre regioni, come l’Emilia Romagna, andavano, muniti di camici e mascherine, a casa dei malati con strumenti di diagnosi efficaci, come gli ecografi, associati tra loro, anche in Lombardia, avrebbero potuto fare, magari anche meglio, quello che in ospedale dovevano fare a 70 persone che arrivavano contemporaneamente in pronto soccorso.

Dove sono finiti i presidi ospedalieri territoriali e i presidi socio sanitari, i Pot e i Presst, immaginati dalla riforma sanitaria in Lombardia? A Sant’Angelo abbiamo un Pot, per l’assistenza dei malati cronici, che svolge un’attività preziosa, ma la riforma della regione Lombardia, calata dall’alto, non è riuscita a coinvolgere l’attenzione dei medici di famiglia, così in pochi hanno aderito.

Il 10 luglio 2007, con un decreto, il Ministero ha previsto, in via sperimentale, le case della salute: queste, nate dalla trasformazione di piccoli ospedali arricchiti dalla presenza del medico di famiglia e dell’infermiere territoriale, stanno diventando un punto di riferimento in regioni come la Toscana e l’Emilia Romagna. In quest’ultima regione, dove c’è una casa della salute, in media, si riducono del 21,1 per cento gli accessi al pronto soccorso per codici bianchi. Percentuale che, secondo una ricerca, sfiora il 30 per cento quando il medico di medicina generale opera all’interno.

Il sistema sanitario pubblico, in sofferenza da anni per la mancanza di personale negli ospedali, ha rivelato in questa occasione tutta la sua fragilità. Sono venuti da tutto il mondo per darci una mano. È vero che abbiamo affrontato una “guerra”, e che non sapevamo nulla di questa guerra, ma se la guerra scoppia di nuovo, con un virus altrettanto sconosciuto, ci faremo trovare di nuovo impreparati?

Serve al più presto un ripensamento efficace del sistema sanitario che non sia più così ospedalocentrico come il nostro. In Germania, per esempio, hanno fatto squadra i medici di famiglia e gli ospedali; il territorio è stato rafforzato in modo notevole e creativo. “Per quanto mi riguarda - ha scritto la pneumologa Dagmar Rinnenburger nel libro “La cronicità”- rivoluzionerei la medicina di base, facendone il perno centrale del cambiamento: farei dei team di medicina di famiglia con medico, infermiere, fisioterapisti, psicologi, piccoli centri nei quartieri, accessibili a tutti”. Dei team che si possono chiamare come vogliamo, case della salute, Pot e Presst, basta che i pronto soccorso degli ospedali non siano più l’unica risposta a tutti i problemi di salute delle persone. Adesso che l’emergenza è finita, infatti, sono tornati ad essere presi d’assalto dalla popolazione.

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