“Caso Uggetti”, l’ordine degli avvocati critica il Gip di Lodi

Una lettera aperta del consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lodi e del presidente Giorgio Bottani sul “caso Uggetti”. Il testo, deliberato il 29 giugno e pubblicato martedì 5 luglio sul sito Internet dell’ordine forense di Lodi, ha per destinatari il presidente del tribunale di Lodi Ambrogio Ceron e la rappresentante dell’Associazione nazionale magistrati, Elena Giuppi. Il testo esprime perplessità su alcuni passaggi dell’ordinanza di custodia cautelare che era stata firmata dal Gip, in particolare riguardo alle argomentazioni usate per motivare la carcerazione preventiva. Ricordiamo che a essere arrestati furono il sindaco di Lodi Simone Uggetti e l’avvocato Cristiano Marini. È la prima volta nella storia dell’Ordine degli avvocati di Lodi che quest’ultimo assume una posizione di critica nei confronti di un magistrato di Lodi.

Pubblichiamo, di seguito, il testo della lettera firmata dal presidente dell’Ordine degli avvocati, Giorgio Bottani.

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Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lodi, nella sua qualità di istituzione che rappresenta, dà voce comune e porta la professione forense al di fuori e oltre il suo ambito giurisdizionale in colloquio e confronto con la società (in ambito locale), ha meditato a fondo, e a lungo, sulla vicenda giudiziale che ha visto coinvolti il sindaco di Lodi e un proprio iscritto alla luce della natura, sostanza e semantica dei provvedimenti giudiziali pronunciati dal GIP del Tribunale di Lodi per disporne la custodia cautelare in carcere e di quelli successivi, e conseguenti alle istanze di rimessione in libertà, che nella immediatezza della loro pronuncia sono stati universalmente diffusi, dando luogo ad un dibattito a livello nazionale.

Ci attardiamo pertanto in una riflessione sul significato generale di alcuni concetti ricavabili da quei provvedimenti, volutamente distanti dall’urgenza della immediatezza dei fatti, sedate le polemiche a vario titolo innescate e a valle della evoluzione giudiziaria della fase cautelare, per la consapevolezza (che da sempre è patrimonio della avvocatura) della distanza dei ruoli, delle funzioni e delle prerogative di ciascuna…, perché la riflessione non solo non sia, ma anche non possa apparire come una interferenza in una indagine; una valutazione sul senso e sui modi di una attività giudiziaria in corso o una pregiudiziale difesa di un collega come espressione paradigmatica di vicinanza od appartenenza.

La considerazione che il Consiglio ha tratto dalla lettura dei provvedimenti del GIP è invece diretta ad evidenziare un aspetto critico circa il senso generale dell’uso del diritto e dei suoi istituti e dell’uso linguistico che lo veicola ed esprime, consapevoli noi (in ciò epigoni della cultura del secolo appena trascorso) che la semantica del diritto non è altro dal diritto e dalla funzione che esprime e come tale è percepita da chi la ascolta e legge.

Ecco perché la lettura del paragrafo relativo alle esigenze cautelari della ordinanza GIP n. 816/16 RGNR che ha disposto la custodia in carcere degli indagati nel caso specifico pone problemi di adeguatezza e sostenibilità non tanto (e questo è aspetto nel quale la nostra valutazione non entra e non ha patria) in relazione alla sostenibilità delle accuse, alla natura e rilevanza delle prove ed alla applicabilità o meno della misura cautelare più intensa, ma al senso degli argomenti che il GIP ha utilizzato ed al modo linguistico che ha scelto per veicolarli.

Non è opinione del Consiglio che la posizione di un avvocato meriti od esiga un criterio valutativo migliore, o di maggior salvaguardia, rispetto a quelli generalmente imposti dal diritto a tutela di ciascun soggetto, ma proprio per il rispetto della imparzialità e distanza che il potere giudiziario deve esprimere in ogni circostanza e verso ogni destinatario (esigenza che l’Avvocatura ben conosce e rispetto alla quale svolge una funzione difficile di controllo e salvaguardia) non è accettabile, e desta profonda inquietudine, leggere che la professione di un indagato, e nel caso la sua qualifica di avvocato, non solo non costituisca una difesa, ma diventi al contrario un aggravante specifica della sua azione.

Il luogo argomentativo in cui il GIP afferma (pag. 27) che i due indagati hanno “piena conoscenza… degli strumenti e mezzi investigativi per il ruolo politico sociale (dell’uno)” e “per le cognizioni tecniche proprie (dell’altro) quale avvocato” non introduce solo un elemento oggettivo di valutazione di fatti per uno scopo proprio e legittimo (sia esso giusto o meno), ma ipotizza, in via neppure incidentale, un distinguo giuridico nuovo, e irrintracciabile nelle norme, di aggravata responsabilità dell’avvocato in quanto portatore di conoscenze giuridiche elevate, nella presupposizione che la professionalità porti con sé la maggior responsabilità giuridica e morale del fatto reato.

Questa valutazione generale, che espone l’imputato, in quanto avvocato, ad un trattamento gravato dal maggior biasimo giuridico e sociale (inescusabile pare, a questo riguardo, l’abuso di aggettivazioni connotate da una acrimonia morale che il Giudice non può e non deve coltivare come presupposto fondamento della propria azione, non essendogli demandato un ruolo di censore etico: “personalità negativa ed abbietta”; “Uggetti ha tradito l’alta funzione ed incarico attribuitogli gestendo la cosa pubblica in maniera arbitraria e prepotente”) non ha alcun rilievo diretto con la funzione valutativa dei dati obiettivi contestati e rilevati dalla pubblica accusa e spinge il Giudice nel terreno, infido ed improprio, della riprovazione sociale e personale, per non dire sociologica, di un genus di cittadino che si vede per ciò solo maggiormente esposto di altri alle conseguenze della propria azione.

In questa allarmante prospettiva di contaminazione della funzione e permeabilità di un pensiero morale personalissimo, ma distante dalla funzione, l’organo locale della avvocatura vede e coglie il senso della preoccupata propensione alla afflittività aggravata motivata dalla appartenenza ad una categoria professionale (avvocatura). In tale senso sono interpretabili le divagazioni (peraltro non richieste dal ruolo del GIP) prognostiche della determinazione della condanna finale per l’indagato rispetto al quale, e proprio in considerazione delle valutazioni di status professionale e delle conclusioni etiche sopra richiamate, il GIP arriva al segno di imporre la impossibilità della concessione delle attenuanti e di una pena compresa nei limiti della sospensione.

Difficile non spingere la discussione in questo caso ai limiti della proprietà giuridica, ma certo questo è compito che oggi non ci compete se non per quel che l’argomento del Giudice travolge con sé, e trascina, di pacatezza di valutazione, proprietà di espressione, consapevolezza dei confini del proprio compito e del proprio potere, per non fare della applicazione di regole giuridiche generali ed astratte un esercizio di valutazione morale per grandi generi e tipologie sociali.

Schema nel quale l’esercizio della avvocatura, cerniera di equilibrio sottile, fragile, ma irrinunciabile, di tenuta e verifica del sistema legale, rischia di essere svilito e “minacciato” da una generale considerazione pregiudiziale di rispondenza morale a criteri ignoti e soggettivi, fino a diventare, come ci pare accaduto nel caso specifico, aggravante ad effetto speciale che pesa su ogni professionista nell’immaginario giuridico del diritto penale evolutivo.

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