“Vite immaginarie” che sfiorano la realtà

Frutto del lavoro di uno dei principali appassionati della ricostruzione storica letteraria sulle origini dell’argot, questi piccoli schizzi biografici, queste Vite immaginarie, rappresentano probabilmente l’apice della produzione di Marcel Schwob (1867-1905). Autore di un nuovo genere di narrativa d’avventura che rifugge il contatto diretto col mondo reale, una tecnica che si rispecchia in questa serie di racconti brevi, ciascuno dei quali dedicato a un personaggio del passato. Una galleria da cui emergono figure illustri come quelle di maestri dell’antichità, come Empedocle, Erostrato o Cratete, di pittori del Rinascimento, rappresentati da Paolo Uccello, a figure mitiche della Roma della tarda repubblica e del primo impero, come Lucrezio, Clodia o quel Petronio, maestro d’eleganza alla corte di Nerone. Ma che comprende anche efferati quanto sfortunati avventurieri, come il capitano Kid, o eretici come fra Dolcino, arso sul rogo, principesse indiane dal nome esotico come Pocahontas, sino ad arrivare a figure meno conosciute, nascoste tra le nebbie della storia, come il maggiore Stede Bonnet, soldato, avventuriero, piantatore alle Barbados e, soprattutto, pirata per capriccio destinato a finire i suoi giorni sul capestro. O, ancora, quegli implacabili assassini che furono i signori Burke ed Hare tra le grigie brume scozzesi, passando attraverso le fortune e le disgrazie di Katherine, merlettaria nella Parigi del Quattrocento destinata ad una squallida fine. Tutto all’interno di un universo onirico sovente lontano dalla realtà con le sue folle di mendicanti, criminali, prostitute, soldati, mercanti, contadini che danno vita alla storia sovente senza lasciare traccia.

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MARCEL SCHWOB, Vite immaginarie, Adelphi, Milano 2012, pp. 206, 12 euro

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