Tradurre la poesia, per varcare le gabbie

Tradurre, soprattutto poesia, è far dialogare culture, è un incontro con l’alterità, è una delle operazioni intellettualmente più impegnative. Per i poeti è una grande palestra per far crescere la propria poesia, per trovare nella necessità di dare voce all’alterità, la propria voce, la propria strada e consolidarla. Gabbie per nuvole di Roberto Deidier (Roma 1965), poeta di valore, sembra appunto privilegiare l’aspetto personale dell’attività di tradurre, scegliendo fra le poesie tradotte in varie occasioni, l’unità tematica nell’organizzazione del libro «in una personale mappa di amicizie e spaesamenti», da cui la scelta, fra l’altro, di non mettere il testo a fronte. Il risultato è una personale antologia di tensioni poetiche e di temi, inoltre un’ulteriore determinazione di realtà e di stile dove: «L’intonazione della propria voce non può che maturare all’interno dell’esperienza, e dunque di un modello culturale che è storico e che va riconosciuto nella giusta distanza». Gli autori tradotti sono in gran parte di area anglofona: Keats, Stevenson Hardy, Auden, Haskell, Larkin..., con qualche francese (Apollinaire, Artaud). Per tutte la versione di Quando ho paura di morire di Keats: «Quando ho paura di morire prima / Ch’io scriva tutto quel che m’urge dentro, / Prima che pile di libri, in caratteri, / Come granai conservino il raccolto, / Quando osservo di notte fra le stelle / Addensarsi i segni di un’alta fiaba / E penso che non riuscirò a tracciare / Quelle ombre con la magia della sorte; / Quando sento, mia creatura di un’ora, / Che non potrò più fermarmi a guardarti, / Né godere della forza incantata /Di spensierato amore; sulla sponda /Del mondo resto solo e penso a quando / Nel nulla amore e fama annegheranno».

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