Scoprire Mirella: tra fede e pudore di fronte al male

«Finalmente. Lo stordimento e la sorpresa combattono con un sottile sgomento e una sensazione di sollievo. Ho saputo. Il medico me l’ha detto poco fa, mascherando con la parola neoplasia la brutalità del termine “cancro”... Adesso so. E sapere fa male e bene assieme».Entra subito nel vivo del problema il racconto che Mirella Poggialini fa della sua malattia: la sua lotta contro il cancro, le sue paure e la sua voglia di farcela sono contenute nell’agile volume Il tempo che rimane – diario di una malattia, edito postumo da Interlinea e curato da Alessandro Zaccuri, scrittore e noto giornalista di «Avvenire».Critica d’arte agli esordi, poi di cinema e televisione, Mirella ha lottato per dieci anni contro il tumore e, ironia della sorte, alla fine è mancata nel 2014 non per via del cancro, ma per un’infezione contratta in sala operatoria. Il racconto delle sue emozioni ed esperienze nella prima fase della malattia è confluito in una serie di articoli pubblicati proprio su «Avvenire» nel 2004, nella rubrica La strada, sotto lo pseudonimo di Francesca. I pezzi sono stati ora raccoltinella forma di un romanzo breve. La scelta di raccontarsi dietro un nome di fantasia fu dovuta al fatto che la giornalista faticava a parlare di sé, per una sorta di naturale ritrosia che segnò la sua vita e tutto il suo lavoro. Autrice di numerosi saggi di critica d’arte, nel suo unico libro di narrativa, la raccolta di racconti Lo specchio del re (1991), evitò di proposito qualsiasi riferimento autobiografico, anche se ogni riga scritta parlava, in qualche modo, di lei. E sfogliando le pagine de Il tempo che rimane non è difficile notare come questo suo istintivo pudore contraddistingua anche il suo rapporto con Dio. Scrive infatti: «È giusto che io preghi per avere aiuto nel momento del dolore e della paura? Non è un atto di egoismo, il mio, quello di pretendere un soccorso tutto per me? Considero, per rassicurarmi, che per Dio ognuno di noi è unico e inimitabile, genio o scarafaggio che sia.. Che l’aiuto può giungermi soltanto da lui e quindi devo rivolgere a lui la mia richiesta. Io. Solo io? E tutti gli altri? Mi sembra quasi, a volte, per l’intensità della preghiera, di togliere qualcosa a chi ne abbia maggiore necessità di me, ancor più sofferente e malato e dolorante ed angosciato».La fede e la fiducia che tutto ciò che si vive abbia senso in un progetto più grande di noi sono uno degli elementi cardine de Il tempo che rimane: Mirella vi trova un forte punto di riferimento e un rifugio, ispirandosi all’esempio di Giovanni Paolo II che, malato, lottò fino all’ultimo per condurre una vita il più possibile normale.Ad arricchire lo spaccato della personalità della giornalista c’è l’introduzione di Zaccuri, in cui si apprendono quelle notizie biografiche che Mirella non ha raccontato: si scopre così che era nata nel 1936, che si era laureata alla Cattolica di Milano nel 1968 in piena rivoluzione studentesca, e che nello stesso anno aveva cominciato a scrivere per «Avvenire». Nel 2004, quando le venne diagnosticato il cancro, la sua vita professionale si trovava in un momento particolarmente felice. Con Il grande Talk, trasmesso prima su Sat2000 poi su RaiTre e infine su TV2000, era diventata un volto televisivo, il pubblico la riconosceva per strada e la sua “Pagella”compariva con regolarità su “Tv Sorrisi e Canzoni”. Ad approfondirne invece il lavoro come critica d’arte è Alessandro Beltrami, in chiusura di volume: queste pagine rivelano gli esordi della giornalista, che negli anni Settanta e nella prima metà degli anni ottanta era stata storica dell’arte nei chiostri dell’Università Cattolica di Milano, dedicandosi in particolare al divisionismo e all’arte tra Otto e Novecento.

Mirella Poggialini (a cura di Alessandro Zaccuri)Il tempo che rimane. Diario di una malattiaInterlinea edizioni, Novara 2016, pp. 73, 12 euro

© RIPRODUZIONE RISERVATA