Quella roccaforte del nulla calata nelle steppe russe

La steppa, nel grande romanzo di Andrej Platonov, è innanzitutto un territorio dell’anima, luogo geografico e spirituale dove uomini impoveriti ed eccentrici, sognatori e spavaldi errano alla vana ricerca di un indirizzo in cui il socialismo trovi una realizzazione completa. Scritto alla fine degli anni Venti del Novecento, Čevengur, che prende il titolo dal nome della sperduta cittadina dove si prova a incarnare la fallimentare utopia della rivoluzione bolscevica, sarà pubblicato solo molti anni dopo la morte in povertà del suo autore, severamente represso e censurato dal regime staliniano. L’avvio è quasi fiabesco, snoda la lenta matassa delle dissertazioni introducendo a un labirinto di destini segnati dalla miseria e da un’incurabile nostalgia: strade di autentici martiri della condizione umana piuttosto che di vittime di accidenti specifici, uomini scolpiti in un tempo preciso e insieme avulsi da qualsiasi periodo, universali, al limite dell’irrealtà per la continua enormità della sventura che quotidianamente sopportano eppure realissimi per come ci vengono descritte le loro sofferenze, le tracce corporee, tutte concrete del loro dolore. Zachar Pavlovič è uno di questi: talentuoso artigiano che ormai rassegnato per necessità e vocazione alla vanità dell’azione terrena si concentra su manufatti preziosi e inutili, ingegnose magie composte di legno ogni volta incomprese dai rozzi abitanti delle campagne, irruviditi e incattiviti dalla penuria di qualsiasi bene. Fanciullescamente incantato dal rumore dei treni e dall’ingegnosità delle macchine, operaio scrupoloso e ascetico, è un personaggio di un’attualità che sfugge a ogni peritura moda o tendenza letteraria: una di quelle creazioni trasversali alle epoche, coaguli di malinconica poesia, eroi della rinuncia, meste riflessioni sul tempo. E accanto a Pavlovič compare il giovane Saška, figlio del pescatore che si tuffa e scompare nel lago ghiacciato per la sola curiosità di scoprire e vivere nell’aldilà, un suicido che non è soltanto un darsi la morte rifiutando un’intollerabile vita, ma un gesto quasi nutrito di gioia e di slancio verso il miraggio di una consolante terra promessa. La tristezza dell’universo e dei molti aneddoti che sfilano nell’irregolare capolavoro dello scrittore russo, si estende al paesaggio, contagia la natura, che viene descritta quasi fosse animata da autonomi sentimenti, eloquente come gli esseri umani che vagano sperduti nel suo paesaggio. Kopenkin, satirico controcanto della malinconia, una specie di Don Chisciotte delle terre sovietiche, vive sotto la venerata stella di Rosa Luxemburg e battezza la sua cavalla Forza Proletaria, a cavallo della quale, in compagnia del riflessivo Dvanov (l’ormai cresciuto piccolo Saška), parte alla ricerca del comunismo, che crede di riconoscere nella cittadina di Čevengur, luogo in cui vacillano perfino le regole fisiche e interi blocchi di case si spostano da soli secondo convenienza o necessità. Una serie di favolosi capricci e astrusi dettami prende il posto di una cosciente pianificazione. Si traduce in un insulso girare a vuoto il tentativo di realizzare questo strano comunismo che costringe i contadini impoveriti a nutrirsi di cibo avanzato dai borghesi fuggiaschi. È visionario e sardonico, Platonov, nello smascherare la pretenziosa vanità dell’utopia socialista, e la più veritiera cartina tornasole del suo fallimento è ancora una volta la risposta di corpi che soffrono, quella deperibile carne che non mente e a cui non si riesce a mentire. Uno dei più anomali classici della letteratura russa il cui epilogo è la sanguinosa baraonda di un assalto cosacco che abbatte tutte le residue difese di quella che è ormai diventata una roccaforte del nulla.

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Andrej Platonov, ČevengurEinaudi Edizioni, Torini 2015, pp. 512, 26 euro

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