Quegli invisibili lacci che legano le nostre vite

Uscito negli ultimi mesi del 2014, questo romanzo di Domenico Starnone (che qualcuno pensa sia l’ignoto autore dietro cui si cela il “fenomeno”Elena Ferrante) è senza dubbio una delle migliori opere uscite lo scorso anno in Italia, a dispetto dello spazio risicato che gli ha dedicato sin qui la grancassa monotonale ed esterofila della critica nostrana. Lo è per i temi, universali e dunque sempre attuali, trattati; per la costruzione ardita e intrigante della trama; per la qualità e l’essenzialità della scrittura (efficacissima nei dialoghi e nei monologhi); per la caratterizzazione dei personaggi; per la capacità di analisi e la levitas con cui questa trapela, discreta ma pungente e spesso amara, fra le pagine . E, ciliegina sulla torta, lo è anche per il titolo (ben illustrato da una copertina azzeccatissima), poco importa se opera di Starnone stesso o suggerimento dell’editore: Lacci . Lacci, come quelli delle scarpe che il protagonista annoda con uno stile bizzarro, perpetuandolo nel figlio e come tale lasciando - nonostante la lunga assenza - un segno indelebile nella memoria del bambino; ma lacci anche e soprattutto come legami: quelli fragili e spesso fasulli, che tengono insieme - salvo disfarsi e riannodarsi infinite volte - le vite di una famiglia. La famiglia in questione è un nucleo come tanti della media borghesia (campana) degli anni Sessanta del secolo scorso: due giovani sposi, due figli, Sandro e Anna, un gatto. Ed è proprio attorno alla sparizione del gatto, portato via da ignoti ladri che hanno fatto razzia nell’abitazione della coppia ormai anziana, che si riannoda à rebours il filo della storia dopo un primo, durissimo capitolo, dedicato alla corrispondenza fra moglie e marito all’indomani della decisione improvvisa di questi di lasciare tutto per un’altra donna. Il gatto si chiama, non a caso, Labes: nomen omen , visto che in latino significa frana, caduta, crollo, rovina. È infatti una vicenda di rovina e fallimenti, individuali e collettivi, quella dipanata in queste fittissime 130 pagine da Starnone. Poco importa che il padre, sparate le migliori cartucce della sua professione di autore e sceneggiatore tv e sotto il peso di un tardivo senso di colpa, a un certo punto faccia ritorno e venga riaccolto pur senza entusiasmi dalla moglie. L’idillio - se mai c’è stato - è finito e non si ricomporrà: la donna resterà disillusa e delusa fino all’ultimo («sono passati gli anni e i decenni in questo gioco e ne abbiamo fatto una consuetudine: vivere nel disastro, godere dell’ignominia, questo è stato il nostro collante» confessa ormai ottantenne al marito); l’uomo conserverà in una scatola le fotografie scattate con l’amante, solo amore davvero vissuto in pienezza («l’ha tenuta nascosta nella sua testa e nella nostra casa per tutta la vita» dirà Anna, nello scovare quegli scatti rubati al passato). Ma non si ricomporranno neppure le vite ferite dei figli, adulti segnati in profondità da quell’abbandono che li ha privati dell’abbraccio caldo di un’infanzia protetta sotto l’ombrello di una madre affettuosa e un padre autorevole, l’uno innamorato dell’altra.

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Domenico Starnone, Lacci, Einaudi, Torino 2014, pp. 133, 17,50 euro

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