Quanto ci manchi, “Ferribbotte”

Un sabato sera del 1959, lungo il viale dello struscio di Oristano, comparve all’improvviso una grande, scintillante Cadillac scoperta. Alla guida, in compagnia di due giovani maggiorate bionde c’era Tiberio Murgia, che in quella cittadina era nato giusto 30 anni prima. Ex cameriere, manovale e minatore emigrato in Belgio, il ritorno a casa fu una sorta di rivincita per il neo attore, lanciato dal successo della sua maschera, Ferribbotte, ne I soliti ignoti di Monicelli, che lo scoprì nel ristorante in cui lavorava. «Il Novecento italiano è fatto di fame e fortuna, di senso del limite e di buona sorte, che spesso cambiava le carte in tavola, come a Murgia, per esempio», scrive Nicola Fano nell’introduzione al libro che dedica a questo personaggio, scomparso l’estate del 2010 in una casa di riposo di Tolfa.

Per Fano, quello che fu uno dei più grandi caratteristi del nostro cinema «è il paradigma dell’Italia del ‘900: un paese all’affannosa ricerca d’identità, ma benevolmente coeso sulla strada, non tanto dell’emancipazione, quanto di un benessere condiviso». È stato la maschera di un paese che, come lui, nato a Oristano nel 1929, parte dalla miseria più nera, si riscatta con l’impegno, si distrae con la ricerca del piacere (con l’atteggiamento del classico “sciupafemmine” che si mette ogni volta nei guai), ma sempre lavorando duro come lavapiatti, minatore costretto all’emigrazione in Belgio prima di diventare, per un colpo di fortuna, ricco e famoso: un divo nei ruggenti anni Sessanta che deeve però pagare per questo un prezzo alto quale la rinuncia alla sua identità di sardo, per assumere quella di siciliano. Per questo, tra l’altro, sarà sempre doppiato (persino a teatro), volto indimenticabile di cui nessuno ricorda la voce, per non averla mai udita. Uomo comunque fortunato, che alle donne (o meglio ai loro mariti gelosi) deve i cambiamenti della propria esistenza, prima in Sardegna dove, iscritto al Pci e notato per le sue capacità comunicative, un giorno in cui è meglio sparire, accetta di andare a frequentare la scuola delle Frattocchie. Lì avrà una storia con una compagna che il partito non approva.Quindi deve cambiare aria e va in Belgio, a fare il minatore a Marcinelle. La sera in cui, nel 1956, ci fu lo scoppio in galleria che causò 262 morti, Murgia si era dato malato per passare la notte con la moglie di un collega belga, rimasto anche lui sottoterra. Spaventato dall’idea di dovere tornare in miniera, quanto dall’idea di dover sposare la donna rimasta vedova, rimpatriò ben presto, e fu la sua ennesima fortuna. Nicola Fano ci racconta tutto questo, ma legandolo al suo amore e alla sua scoperta della Sardegna, oltre che alla sua passione per il teatro di varietà, di cui è uno degli studiosi più importanti, che lo ha portato a contatto con comici, artisti, fantasisti di ogni tipo, come veniamo a sapere anche in queste pagine, attraverso aneddoti e storie incredibili, quella «esemplare» di Ferribbotte, ma anche tante altre, come l’incontro col «rumorista» Ennio Pasqualucci, ultimi testimoni di una stagione passata di lustrini e lazzi. Ricordando tutto questo viene naturale, a Fano, di riflettere e far paralleli col presente, arrivando a concludere che «In questo nostro frettoloso presente la memoria è diventata rivoluzionaria, quasi quanto è aborrita.... Ricordare è mal visto e giudicato inutile da chi commercia in notizie e commenti». È accettato solo se si omettono quei difetti e vizi «che la nostra storia di italiani ci mostra ineffabilmente come finiscano per costare ciclicamente alla comunità, la quale immancabilmente li riscatta nelle sue brevi ma costanti fasi di rinascita etica».

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NICOLA FANO, Ferribbotte e Mefistofele - Storia esemplare di Tiberio Murgià Exorama Edizioni, 2012, pp. 140, 14 euro

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