Giovedì 05 Settembre 2013
Paolo Di Stefano e un mistero “pirandelliano”
«Diceva Einstein: è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio». Intorno a questa citazione di uno degli avvocati difensori di Salvatore Gallo, presunto assassino del fratello Paolo, si dipana la storia pirandelliana di uno dei più clamorosi errori giudiziari del dopoguerra, ripresa in questo romanzo, fresco vincitore del premio Viareggio per la narrativa. Fra pregiudizi e indizi, realtà e apparenza, chiacchiere e silenzi, rivelazioni e colpi di scena, una miriade di personaggi e comparse si muovono nell’orchestrazione narrativa, pur nell’andamento giornalistico sapiente e appassionato dell’autore, Paolo Di Stefano, che sembra rivivere quella vicenda avvenuta fra i dirupi di Avola in, Sicilia, di cui è originario, e le piazze di Siracusa, in un percorso dell’anima e della cronaca che si spinge fino a Ragusa, Catania e Noto, per arrivare all’isola di Santo Stefano, nelle viscere del terribile carcere.
La vicenda, che si lega a un fatto di cronaca vera, narrato come un giallo e tinto di mille sfumature - dal colore locale-dialettale al contesto storico-sociale di quegli anni e di quei luoghi - inizia nel mattino piovoso del 6 ottobre 1954, quando il contadino analfabeta Salvatore Gallo, terrigno e sanguigno denuncia la scomparsa del fratello Paolo, mite e gracile: i due fratelli vivono “separati in casa” nella stessa masseria, in contrada Cappellani, ma litigano quotidianamente e coinvolgono nell’odio le loro famiglie e anche i vicini. L’incriminazione, allora, come spinta dal grido della presunta vedova «u dissiru e u ficiru», è scontata: quando le forze dell’ordine trovano sul posto due pietre e il berretto dello scomparso macchiati di sangue, i sospetti si appuntano subito sul fratello, anche se del cadavere non v’è traccia, neanche dopo perlustrazioni accurate tra case e per l’aspra campagna.Inizia così per Salvatore Gallo un’odissea fra interrogatori e sofferenze, testimonianze e ritrattazioni, fino al processo che lo condanna all’ergastolo e all’appello che confermerà la pena. Intorno alla sua figura silenziosa e rude, come scolpita nella pietra lavica, da cui trasudano gocce di sofferenza, si muovono i figli “picciriddi” ma non troppo (il più grande, Sebastiano, incriminato anche lui per complicità), gli altri fratelli Gallo (due emigrati all’estero, che finanziano la difesa), gli avvocati cittadini e di chiara fama, e le donne: Venerina Costa, detta la Masudda, promessa sposa del presunto colpevole, e Cristina Giannone, moglie dello scomparso e feroce accusatrice di Salvatore. Insieme a loro, una folla di comparse dà voce e spessore alla vicenda e rimane intrappolate nel suo magma: dai giudici al maresciallo Luminoso, che per primo segue le indagini; dai “viddani” con la coppola che testimoniano di aver visto Paolo vivo aggirarsi nei dintorni, ma poi ritrattano per paura, ai compagni di cella di Salvatore, dal secondino pietoso al direttore “illuminato” di Santo Stefano.E la vicenda pirandelliana del morto-vivo di Avola, narrata con sapiente di asciuttezza e profondità analitica, vive del quadro generale, del gioco corale di voci e persone, che intrecciano le loro vite con la grande storia italiana di quegli anni (la modernizzazione, il boom economico, l’avvento della tv) in cui la Sicilia appare un mondo e un’epoca a sé stante. Fino alle pagine finali, in cui qualcosa si muove: un avvocato (ex combattente della resistenza) e un giornalista d’assalto decidono di affondare le mani nel magma e i silenzi cominciano a sciogliersi in parole, finché lo scomparso riaffiora come un’ombra, che acquista contorni sempre più netti.
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Paolo Di Stefano, Giallo d’Avola, Sellerio editore, Palermo 2013, pp. 332, 14 euro