Obesi mediali, le ricette di Gui per “guarire”

Una ricetta contro i rischi dell’«obesità mediale». È quella che offre in questo volume il sociologo Marco Gui, partendo dal presupposto che di media si può fare indigestione. Sia i media tradizionali - in primis la televisione, con la proliferazione dei canali satellitari e digitali -, sia soprattutto Internet, con la diversificazione dei dispositivi di connessione (tablet e smartphone), hanno incrementato a dismisura la quantità di tempo che trascorriamo consumando informazione: 11 ore giornaliere in media secondo le più aggiornate ricerche statunitensi. Tutto ciò si ripercuote sulla nostra qualità della vita, a partire dalla sfera delle relazioni sociali ma con conseguenze importanti anche sotto il profilo psicologico, specialmente nei soggetti più deboli. Né più né meno di quanto accade, per l’appunto, con l’obesità. Gui affronta le problematiche principali legate al sovraconsumo degli strumenti informativi: la necessità di “difendersi” limitando la quantità di tempo passata tra web, radio, tv e altri canali comunicativi; la difficoltà nel fare selezione, individuando i contenuti di qualità nel mare magnum della Rete, dell’etere e dei programmi televisivi e radiofonici; la fatica di mantenere la concentrazione sotto il logorio martellante dei messaggi che ritmano il vivere e lavorare; i contraccolpi della sovrabbondanza informativa sulle relazioni interpersonali e sul percorso formativo dei più giovani. Al pari del suo corrispettivo in ambito alimentare, l’obesità mediale non è soltanto un fenomeno di quantità, ma riguarda anche la qualità dei contenuti veicolati, cui si aggiunge la loro capacità di “inseguirci” ovunque, nel lavoro come nel tempo libero (attraverso i device nei quali vengono incanalati), ma anche la loro rimodulabilità. Due possibilità, queste, introdotte dalla digitalizzazione e dal suo peculiare linguaggio, che ha permesso di unificare le diverse reti comunicative (tradizionali e non) e i diversi strumenti di fruizione. Per evitare di essere travolti da tale flusso di messaggi e di stimoli mediatici la prima contromisura che occorre mettere in campo, secondo l’autore, è quella dell’autolimitazione: saper ridurre quindi i tempi di “esposizione”. Ciò riguarda tutti i media, a partire dalla tv (divenuta interattiva), ma diventa fondamentale soprattutto nei confronti della Rete, il cui “fascino” coinvolge tutte le tipologie di utenti ma può portare a derive patologiche nei giovanissimi e nelle persone di più basso livello culturale. La seconda sfida concerne la selezione dei contenuti. Nel caso di Internet al problema della scelta d’impeto, si aggiunge quello della valutazione ragionata, particolarmente arduo di fronte alla sterminata quantità di materiali che la Rete mette a disposizione. Qui entra in gioco il tema dell’alfabetizzazione digitale, una miscela di competenze tecniche, di gestione delle informazioni e di strategia d’uso dei nuovi strumenti. Che specie i giovani vanno aiutati a maturare. E i giovani sono anche la categoria che più risente del terzo nodo problematico della bulimia mediatica: quello della difficoltà di concentrazione, contro cui bisogna allenare l’attenzione. L’ultimo capitolo dell’indagine di Gui è dedicato all’analisi delle ripercussioni dei media sulla vita relazionale degli individui. L’autore mette in guardia dai rischi di vivere due dimensioni relazionali pubbliche (una on line e una off line) potenzialmente stridenti e rimarca i pericoli, per i più giovani, di sovrapposizione dei due piani. In conclusione si sofferma su un aspetto cruciale dell’«obesità mediale»: la sua rilevanza come problema sociale. Bisogna adoperarsi per aiutare le persone a non riempire oltremodo il “piatto” dell’informazione, scegliendo con attenzione la qualità e il gusto delle “pietanze”, diventando così fruitori responsabili dei media.

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Marco Gui, A dieta di media. Comunicazione e qualità della vita, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 172, 12.50 euro

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