Nel nome di mio padre

“La mia stirpe” di Ferdinando Camon: la vita di un anziano colpito da un ictus vista dal figlio in cerca delle proprie radici”

Una frase che sappiamo di aver già sentito, anche se non ricordiamo quando, un segno sulla carne che si ripete, un gesto, che riportano a altre persone, che in una nipote ricordano la nonna: «Come sei cambiata mamma.... Ma ti riconosco: sei sempre tu, tre generazioni dopo, rinata bambina», come scrive Ferdinando Camon a conclusione di questo suo nuovo romanzo, dedicato alla figura del padre, ma che appunto termina con quella cui aveva dedicato uno dei suoi libri più fortunati, Un altare per la madre, premio Strega 1978. Quello lo aveva definito la chiusura del suo Ciclo degli ultimi, dedicato alla sua gente e alle sue origini contadine, cui è come si aggiungesse invece un nuovo capitolo quasi a chiudere un cerchio di quella sua narrazione epica che ora pare unire le generazioni nel tempo, di rinnovarsi e perpetuarsi eguale ogni volta, ad ogni nuova nascita e vita: è per Camon, attraverso questa narrazione, la presa di coscienza del senso della stirpe, che in ognuno è tutti quelli che esistettero prima di lui e tutti quelli che esisteranno dopo. Il padre è colpito da un ictus e incapace di comunicare: «È come fossi stato richiamato al fronte», annota lo scrittore, che davanti a quell’uomo in difficoltà eppure sempre fiero, riconosce quella coerenza e intransigente integrità contadina in cui si rispecchiano i suoi antenati, ma anche i figli e nipoti, in un susseguirsi di vite che paiono integrarsi, ripetersi, completarsi come nel procedere di un’unica, complessiva esistenza. E i ricordi, le riflessioni, il sentirsi divenuto «altro» e per questo non

più riconosciuto dal padre, perché ha permesso i figli andassero lontano (uno vive in America) e il giorno che morisse si troverebbe solo come un cane, mentre un uomo deve morire con tutti i figli intorno. «In quel disconoscimento sentivo una condanna biblica, come se mi mandasse ramingo sulla terra» e poi «Piangendo la sua morte, in realtà piango la mia». E lo stesso vale per la fatica nei campi: «Lavorare la terra è un lavoro sano, ed è scritto nel Vangelo. Se uno ha un campo può segnarlo con un puntino sul mappamondo, ma se uno ha una cattedra universitaria cosa segna?». Questo altare per il padre, scritto con una lingua icastica, semplice, diretta, si costruisce così in un mondo profondamente cambiato e, per esempio, in ospedale, il compagno di stanza musulmano chiede venga tolto il Crocifisso. Poi c’è il ricordo ossessivo di Mussolini e ancor più del Re, che lo avevano illuso e tradito, quanto il Papa che non era mai riuscito a incontrare, come del resto era capitato a suo padre, tanto che Camon, quando sarà invitato nella Cappella Sistina per un incontro del Pontefice col mondo degli artisti, si porterà sotto la camicia le foto del padre e del nonno, come a metterli finalmente al cospetto di Sua Santità, anche se questi ormai è più sedotto dalle star televisive, che da scrittori e pittori. Ma lì, sotto la michelangiolesca Genesi, avverte chiaro il senso di quella infinita catena che tutti ci collega: «La nostra vita è scritta da secoli. Ciò che non riusciamo a esprimere è già stato espresso infinite volte». Dai problemi con l’alfabeto del padre, che non riconosce le lettere e la loro posizione nella tabella che gli viene presentata, Camon arriva infine a parlare inevitabilmente del proprio lavoro che delude il vecchio, perché lui scrive della vita non della “Ri-vita”: «La gente ha bisogno di sapere cosa farebbe se tornasse a vivere.... nessuno ha bisogno di sapere cosa fa mentre vive». Ma la verità, quella del libro e della vita dello scrittore, sono nella confessione che «Scrittura, nevrosi e santità sono s orelle, camminano affiancate, tutte e tre hanno a monte un oscuro senso di colpa e a valle un interminabile bisogno di espiazione».

(FERDINANDO CAMON, La mia stirpe - Garzanti, Milano 2010, pp. 150, 14,60 euro)

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