Magris “viaggia” dentro gli orrori della Storia

Si fa fatica a leggere questo libro. Ci vuole tempo e ci vuole pazienza. Anzitutto a non arretrare davanti ai lunghi e dettagliati elenchi (un po’ come con la puntuale classificazione di balene e capodogli nel Moby Dick di Melville) delle macchine da guerra conservate nel surreale museo allestito dal protagonista, peraltro morto già nelle prime pagine in una raccapricciante scena di “tarantiniana” memoria. Ma occorre pazienza anche a non smarrirsi dentro l’intreccio non proprio lineare del romanzo, il cui filo conduttore scorre lungo l’asse del tempo (dalla schiavitù dei neri condotti al macello sulle navi negriere agli anni dello sterminio nazista fino al difficile dopoguerra triestino) e nel quale muta di continuo anche il punto di vista. Ora dell’Autore, ora dell’ideatore del museo che in qualche modo rivive negli appunti radunati dalla sua storica segretaria, ora di quest’ultima, impegnata a rimettere ordine alle carte del defunto, ma al contempo erede e memoria dell’esilio e della tragedia ebraica. E si avanza lentamente anche per la pregnanza della lingua, densa, meditata, evocativa, a tratti visionaria con cui il libro è scritto. Si fa dunque fatica, si avanza piano, ma la restituzione, come avviene sempre quando si ha a che fare con una grande penna, è straordinaria e la lettura ripaga di ognuna di quelle gocce di “sudore” versate nel fare scorrere fra le dita le quasi quattrocento pagine del romanzo con cui Magris chiarisce una volta di più - se ancora ve ne fosse bisogno - di essere il più importante scrittore del nostro Paese e fra i più importanti in assoluto nel panorama letterario mondiale. In Non luogo a procedere Magris mette nero su bianco il tema della responsabilità morale della Storia ma anche di quella delle sue vittime e dei suoi carnefici, ripercorrendo alcune delle pagine più buie e cruente (in particolare durante il “secolo breve”) dando vita a un romanzo che scava in profondità nelle follie criminali del Novecento, sbattendoci in faccia infamie, connivenze, silenzi, impunità. Come quando racconta della Trieste “bene” del dopoguerra e dei suoi salotti, in cui un ex gerarca nazista macchiatosi di centinaia di omicidi all’interno della Risiera di San Sabba (l’unico lager dotato di forni crematori sul territorio italiano) viene accolto senza troppi problemi o sussulti di coscienza, provocando disgusto e indignazione soltanto nella giovane orfana ebrea Sara, sopravvissuta a quell’orrore. Eccole, quelle parole, in tutta la loro forza e teatrale intensità: «No, non erano state quelle strette di mano e quei convenevoli tra l’assassino e tante persone perbene a inturgidire quella vena che sporgeva talora improvvisa sotto la tempia di Sara. Scoprire che quelle belle terrazze illuminate erano l’altra facciata della Risiera - il salotto buono di rappresentanza, di quello come di tutti i mattatoi - non l’aveva fatta vomitare [...]. Lei aveva sputato, quando aveva saputo che un sadico e ottuso boia, un imbecille burocrate dell’assassinio, è una persona come si deve, bene accetta a persone perbene che non farebbero male a una mosca - diciamo, per prudenza, che non hanno mai fatto male a una mosca -, perché bisogna vedere cosa avrebbero fatto se si fossero trovate in una situazione in cui è normale spargere insetticidi e non solo sulle mosche. Aveva sputato; uno sputo forte e ricco di saliva, cosa che non è da tutti in certi momenti. [...] Meno male che c’era la morte e che tutte quelle facce ben curate e sorridenti sarebbero scomparse anche loro, carne che marcisce sotto terra e non è meglio del fumo che si dissolve nell’aria».

Claudio MagrisNon luogo a procedereGarzanti, Milano 2015, pp. 362, 20 euro

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