L’officina del diavolo e la Bielorussia ferita

Una terra contesa tra Mosca e Berlino, un Paese distrutto da due totalitarismi che ne hanno dimezzato in pochi anni la popolazione a forza di “pogrom”. È la Bielorussia, dove il diavolo, fra gli anni ’30 e ’40 del ’900, ha installato la sua “officina” di morte. A riportare l’attenzione su quell’orrore ci prova il ceco Jáchym Topol in un romanzo, in cui sotto la crosta del grottesco emerge una ferita ancora aperta e che ha bisogno di essere ripulita per cicatrizzarsi. Perché «dimenticare gli orrori del passato significa anche accettare il nuovo male», come urla il folle Kagan, l’archeologo deciso a sottrarre alla terra ossa, corpi e oggetti personali di milioni di vittime per farne un Museo turismo di massa sullla scorta di quanto realizzato nel lager di Terezín, a Praga, trasformato in un Jurassic Park dello sterminio da una strampalata comunità di hippy.

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J. TOPOL, L’officina del diavolo, Zandonai, Vicenza 2012, pp. 167, 14,50 euro

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