L’invito all’utopia di Walter Veltroni

Un romanzo sulla forza dei sogni, sulla nece ssità dell’utopia, quest’ultimo di Walter Veltroni, per parlare ai giovani di oggi «depressi e sfiduciati, angosciati e isterici» che il mondo «al massimo vogliono maledirlo, non cambiarlo», come dice Francesca, una bella signora che aveva vent’anni nel 1968, a Giovanni, che quell’età ce la ha adesso. Un romanzo che racconta una storia vera, quella dell’Insulo de la Rozoj, ovvero l’Isola delle Rose, una piattaforma costruita da un gruppo di ragazzi in acque internazionali nell’Adriatico, davanti a Rimini: un luogo di libertà e gioia che, come tutto in quegli anni, fece paura al potere. Tre foto, che Veltroni lascia senza parole, ne documentano la fine a colpi di tritolo nell’ottobre del 1968. Giovanni, con la passione del sub lungo la riviera romagnola, trova in fondo al mare un contenitore termico pieno di 45 giri, un romanzo di Garcia Marquez, varie carte e una stinta bandierina triangolare con tre rose e la scritta in esperanto, che di quel luogo ideale era stata dichiarata la lingua nazionale. Ed è seguendo la pista dell’esperanto che arriverà al vecchio, ma non invecchiato,

Andrea, pieno di vita accanto alla sua giovane e prorompente nuova moglie russa Ludmila. Questi, che vi partecipò col soprannome di Scatto, documentandone la storia fotograficamente, gli racconterà la vicenda di un gruppo di giovani ex compagni di scuola che, nel 1967, ispirandosi all’istituzione dello Yaddo di Edgar Allan Poe, vagheggia un’isolotto, «una specie di comunità per l’arte» in mezzo al mare, pensando oltre al pane alle rose, «perché i cuori hanno fame così come i corpi», secondo i versi di una famosa poesia di James Hoppenheim, tanto da riuscire alla fine a costruirla. Sono Giulio, il più visionario vitellone della riviera, Giacomo che sta iniziando a fare l’avvocato, Lorenzo, figlio del proprietario del mitico Grand Hotel di Rimini, che li finanzierà, vedendo nell’idea anche una bella possibilità turistica di far soldi, Simone, geniale studente diventato ingegnere pieno di problemi psicologici, cui si aggiunge Elisa, amata da Giulio e Lorenzo. Personaggi provinciali, da commedia all’italiana, che in anni in cui tutti sognano, ne costruiscono uno proprio, proclamandolo nazione indipendente con Summertime come inno nazionale, scatenando i sospetti più assurdi, dall’Eni che teme vogliano fare perforazioni petrolifere, ai servizi segreti che pensano a un avamposto comunista per rampe missilistiche Jugoslavo o Albanese, alla Chiesa che paventa diventi un casinò e night con spogliarelli integrali. In realtà è solo una invenzione turistica in cui nasce un mitico bar condotto dalla bellissima Luana e la prima radio libera italiana, in cui si parla di Vietnam, del Che, di Luther King, e si mandano in onda le canzoni senza le censure della Rai, a cominciare da Bocca di Rosa. Veltroni racconta con personaggi inventati questa avventura curiosamente caduta nel dimenticatoio, ma attento alla cronaca storica, anzi proprio giocando sulla immediatezza descrittiva di una cronaca colorita e sentimentale, con riferimenti cinematografici (e alle spalle il fantasma riminese di Fellini), ma soprattutto una continua colonna sonora che cita tutte le grandi canzoni di quegli anni come in una fotografia, un’istantanea di Scatto che restituisce l’immagine superficiale dei fatti, cui l’autore da un senso di metafora didascalica con la cornice ambientata nell’oggi.

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WALTER VELTRONI, L’isola e le rose, Rizzoli, Milano 20120, pp. 320 - 17,50 euro

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