Le piccole storie per raccontare la Grande guerra

Nel tripudio - si fa per dire - di eventi, cerimonie, convegni, dibattiti, salotti televisivi, libri, film... chiamati a rammentare il centenario dallo scoppio della prima guerra mondiale (pardon, dell’ingresso dell’Italia in quella macchina di morte, nel maggio del 1915), Claudio Calzana sceglie una strada diversa per rituffarsi in quegli anni travagliati e, lo diciamo subito, l’azzecca in pieno. Perché il suo romanzo, Lux (da poco in libreria per le edizioni Giunti), ha la capacità di far ripiombare il lettore indietro di un secolo senza il peso e la fatica di rivangare nel dolore, anzi, con la levità di una storia (e della scrittura su cui è sorretta) che della guerra porta con sé solo un’eco lontana senza con questo trascurarne l’impatto sulle vite dei protagonisti. Quello di Calzana, bergamasco, ex insegnante e ora imprenditore in un’importante azienda editoriale, è un libro come se ne leggono pochi di questi tempi, al di là di certe assonanze con i racconti di Andrea Vitali o, pescando più indietro, quelli di Piero Chiara. Lo è per la storia che racconta e per come la racconta. Una storia “di provincia” - se tale può definirsi Bergamo a inizio Novecento - nient’affatto provinciale, visto che sceglie di raccontare l’avvio di un cinematografo (arte universale per eccellenza) da parte di un drappello di amici dai nomi /nomignoli bizzarri (Spiridione, Esperia, Romeo) che fanno tutt’altro per campare (chi il panettiere, chi il meccanico, chi il fotografo) e che s’imbarcano quasi per caso nell’intrapresa che scardinerà, con le loro, anche le vite di familiari e vicini. Un libro inconsueto per la storia, si diceva, ma soprattutto per come Calzana la racconta. Perché la scrittura - e avemmo già modo di scriverlo qualche anno fa su queste colonne per un suo precedente romanzo - è la carta in più che l’imprenditore-scrittore orobico butta nel mazzo per fare saltare il banco. Una scrittura quasi teatrale (non a caso in apertura il libro reca l’elenco dei personaggi, con relativa descrizione degli stessi), fortemente colloquiale e che si prefigge di riproporre mimeticamente la vivacità del parlato (con tipici lombardismi di ieri e di oggi, a partire dall’uso dell’articolo davanti al nome proprio). Una scrittura, infine, che è impastata, dalla prima all’ultima riga, di un’ironia mai banale che a tratti si fa vera e propria comicità, ma che sottende sempre - come nella migliore tradizione dell’umorismo - una nota stonata, un pizzico di amaro, talvolta un dramma sotto traccia. Illuminanti, per lo stile ma anche per la capacità di mettersi nei panni di chi si trovava davanti alle meraviglie del cinema degli albori senza capirne il senso, alcuni dialoghi fra Dante e la figlia Esperia davanti alla prima rudimentale cinepresa. Eccone un esempio: «E a cosa serve?» Il Dante prese la domanda sul lato meccanico: gli venne su anche un discreto nervoso perché voleva dire che non si era spiegato bene. Ma la questione avanzata dalla figlia era di altra natura, diciamo pure metafisica: lei chiedeva che sugo c’è a riprendere, scusate, a prendere il mondo e a confinarlo dentro quella scatola. Per poi, seconda infrazione, svolgerlo su un lenzuolo. Il primo di sicuro è un furto, il secondo una perdita di tempo, magari».

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Claudio Calzana, LuxGiunti, Firenze 2015, pp. 192, 12 euro

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