La storia di Franco, carnefice disilluso

«Suona strano, se penso al Sessantotto non mi vengono in mente bandiere nere e inni al Duce» commenta il giudice che, nel maggio 1985, sta interrogando Franco Revel, ex capo di Lotta Nazionale (che nella realtà era Avanguardia Nazionale) il quale gli parla degli scontri di Valle Giulia e alla Sapienza davanti a Giurisprudenza nel 1968, quando nacque la sua amicizia con Stefano Guerra, sulla cui morte si sta indagando. Eppure è da quella realtà oggi dimenticata, dalla presenza dei neofascisti in quei cortei, di cui furono anzi l’anima dura e che andò allo scontro con la polizia, che prende le mosse questo romanzo.

Un romanzo importante persino al di là delle sue qualità e dei suoi difetti letterari, a cominciare da un’eccessiva lunghezza, perché indaga, a distanza dai fatti e con tutto quel che oggi sappiamo, sulla strategia della tensione in quella calda fine degli anni Sessanta, ricostruendo storia, psicologia, idee, azioni di un ragazzo dell’estrema destra eversiva, personaggio inventato, ma calato nel mondo reale. Non c’è la potenza e la sorpresa che suscitò nel periodo ancora caldo Occidente di Ferdinando Camon, uscito da Garzanti nel 1975 e nel cui protagonista credette di riconoscersi Franco Freda, ma c’è il vivere quotidiano di Stefano Guerra, la sua violenza istintiva che una personalità accorta come quella di Revel coglie subito e strumentalizza. Tra una vita spericolata e momenti di esaltazione, tra sbandamenti e un’idea di eroe puro e pronto al sacrificio per far saltare il sistema, ci sono le riunioni, i discorsi, i viaggi, specie al nord a Belluno, o Udine e Trieste, al confine con la Jugoslavia e la Dalmazia non più italiana; ci sono la rabbia che spinge a ribellarsi, all’azione, come gli amori e le bevute, il traffico di armi e i maestri come Sperelli, che suggeriscono cosa fare. Il romanzo procede su due piani temporali a capitoli alternati, il 1985 e gli anni della contestazione e della lotta armata, i ricordi di Franco e la vita di Stefano sino al suo tragico epilogo. Ed è proprio Sperelli (che nel 1970 verrà arrestato) a parlare, nella primavera del 1969, di «Europa come ideale politico e razziale che sta tramontando nella ricerca del denaro, nella plebe senza nome.... Le statue dei guerrieri si stanno corrodendo», per arrivare a dire che «l’immagine più violenta del sovvertimento è la mobilità formicolante della società italiana. Una stazione affollata. Una banca affollata.... Ecco cosa dobbiamo colpire», perché «noi che amiamo le vette granitiche e i principi etici non possiamo tollerare uomini e donne che cambiano ruolo sociale da un giorno all’altro» e se la prende alla fine con i «giudei». Poi naturalmente c’è il sesso, le discoteche, la droga, le varie fazioni, l’essere sempre pronti a battersi gli uno con gli altri, convinti della bellezza della violenza e della purezza dell’odio, ognuno più puro del camerata accanto come del vecchio amico. Insomma, attorno al percorso di stragista di Stefano, carnefice sempre più disilluso, che si sente usato e tradito e finirà a incontrare e sfidare il proprio destino sino in Sudamerica, c’è il tessersi delle trame nere, le collusioni con la malavita, l’aiuto o almeno la distrazione di tanta parte della polizia, la corrente sotterranea di vita violenta che alimenta la storia, quegli avvenimenti tragici che tutti ricordiamo, appunto tra banche e treni. Il merito di Alberto Garlini, che è uno dei curatori di Pordenonelegge, è nel rendere viva e umana, vera, credibile la figura di Stefano, ma anche quella di Franco o delle ragazze come Valentina o Cesarea, e tutto il loro senso di ingiustizia, la frustrazione, la disperazione che sfocia in nichilismo, in autodistruzione che vorrebbe distruggere tutto con sé, perché anche la politica, e quella di destra in particolare, così sempre rivolta all’indietro, non riesce a dare un orizzonte, a rendere credibile un progetto di futuro.

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ALBERTO GARLINI, La legge dell’odio Einaudi, Torino 2012, pp. 814, 22 euro

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