La storia del cabaret tra varietà e denuncia

La storia del cabaret scritta a quattro mani da un duo come quello composto da un attore e cantautore come Giangilberto Monti e un cultore del teatro-canzone e personaggio di Zelig come Flavio Oreglio non poteva che essere come è: ovvero un racconto direttamente rivolto al lettore, unendo curiosità e dati storici, lontano da un qualsiasi andamento saggistico, anzi, facendo quasi... cabaret del cabaret.

Si va dal mitico Chat Noir, nato a Parigi nel 1881 e considerato il capostipite di tutti i cabaret, fino al “comico catodico” creato da Antonio Ricci quasi esattamente un secolo dopo, quando «il comico non ha più la funzione di ribaltare la realtà o giocarci sopra, per costringerci a vedere al di là dello schermo: nel Ricci-pensiero, la battuta diventa il veicolo del buonsenso popolare». Scherzano, divagano, ma poi vanno dritti al punto i due autori: e colpiscono nel segno, dopo aver ricordato che «i canali tv non sono più un mezzo con cui leggere la realtà: al contrario, diventano loro stessi la vita reale, in un cortocircuito dove la realtà esiste se (e solo se) passa sul televisore».Dall’osteria parigina di Rodolphe Salis (cabaret è appunto un’osteria bar) agli studi tv di Mediaset il passo comunque non è breve: e il nuovo tipo di irriverente teatro comico da camera, legato in genere all’attualità e accompagnato dalla musica, ha lasciato il suo segno e una nostalgia che sembra ogni tanto ridargli vita, se anche recentemente Cochi e Renato sono tornati a riproporre i loro personaggi e scenette in teatro. Certo, il carattere di un genere nato in osteria non poteva che essere provocatorio, ribelle, comico e sulfureo, spesso sul filo del rischio personale. Si pensi a Petrolini sotto il fascismo, «sarcastico interprete degli aspetti più ipocriti della società del suo tempo», il quale «professava pubblicamente la propria ammirazione per Mussolini, ma con tale convinzione - come nella caricatura neroniana del suo tormentone «Bravo! Grazie!» - che diventava difficile credergli fino in fondo». O Werner Finck, che a Berlino nel 1933 «si concedeva il lusso di chiedere ai nazisti presenti in sala se dovesse parlare più lentamente, per permettere ai loro piccoli cervelli di capire gag e doppi sensi».Nella Parigi fine Ottocento e primo Novecento, quando il locale più in voga è il Lapin Agile (che esiste ancora oggi) nasce molta della moderna comicità: come nascono anche gli chansonnier, che avranno i propri, impegnati e più seriosi nipoti in Juliette Greco e i neri “esistenzialisti” applauditi da Eluard, Sartre o Prevert. E poi c’è la Germania di Karl Valentin e Bertolt Brecht, il Cabaret Voltaire in Svizzera e Il pipistrello a Mosca. E in Italia? Al nostro paese Oreglio e Monti dedicano la seconda parte del libro, un po’ più malinconica, perché vedono un cabaret figlio soprattutto del café chantant, che tende al varietà, più che delle unghie del Chat Noir. Certo, persa l’occasione del futurism, esistono eccezioni di qualità, dai Gobbi al Trio Fo-Durano-Parenti anni ‘50 ai Gufi del decennio seguente, ma la decadenza appare veloce e la conclusione davvero triste: «In questo intersecarsi di fenomeni tendenti al basso e alla sottocultura si manifestò la reazione nei confronti del sorgere di un pensiero critico post-Sessantotto: una vera e propria controriforma, forse non pianificata, ma sicuramente avvenuta». Però, avvertono gli autori, l’eterna lotta tra il varietà, che tende a stare con il potere, e il cabaret, che preferisce stare all’opposizione, continua: e loro stanno dalla parte di quest’ultimo, «che vuole stimolare la rinascita culturale, ama la sperimentazione, si nutre di scambio di idee, immagina nuove utopie e, al suo meglio, è poesia comica allo stato puro».

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G. MONTI - F. OREGLIO, La vera storia del cabaret - Dall’uomo delle taverne alla bit generation Garzanti Libri, Milano 2012, pp. 294, 14.90 euro

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