Questa raccolta di Carlo Cipparrone (Cosenza, 1934) ha un piglio ragionativo e riflessivo. In un linguaggio orientato al senso mette in tensione etica ed estetica, ci dà la misura di una condizione «di clandestinità» di chi scrive versi, un’emarginazione sociale e psicologica di tutti tempi, ma che si acutizza con la massificazione. Vi è tensione fra amore per la poesia e malinconica estraneazione. Il poeta decide di “volare basso”, ragiona su una condizione e un sistema con echi civili e melanconie “crepuscolari”, ma in ferma posizione di valore che sa conciliare tradizione alta e accessibilità popolare. Sono la chiarezza e un discorso franco la struttura del dettato, punti di forza di questo dire non scevro da mimetismi e personificazioni della tradizione letteraria. Per tutte: «Non prendiamo troppo / dai nostri versi, non chiedamogli / nulla di più di ciò che sono: / scorie di bosco, inariditi rami, foglie secche, tozzi di legno / che ardendo si consumano. / Servono a tener vivo il fuoco, // Altri verrà dopo di noi / a dar forza alla fiamma / a sollevare più alte faville».
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Carlo Cipparrone, Il poeta è un clandestino, Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2013, pp. 118, 12 euro
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