La ragazzina che ha osato sfidare il tempo

Anche i suoi malanni stanno al gradino più basso della gerarchia. Persino il raffreddore, «un raffreddore indecoroso, che le fa colare il moccolo dal naso come a una vecchia [...] e neppure lo starnuto è mai una bella esplosione di libertà, ma è sempre uno starnuto da gatto, soffocato e represso». Tutto ciò che la riguarda, a partire dal suo corpaccione grasso e informe, dal suo muoversi impacciato e sgraziato, dalla sua incapacità di reagire a qualunque sollecitazione o angheria, dalla sua volontà di stare defilata, solitaria e silenziosa, denota uno stato di abbruttimento, un’imperscrutabile volontà di azzerarsi e scomparire, una voglia irrefrenabile di oblio. D’altro canto non ha nemmeno un nome, né un passato: l’uno e l’altro inghiottiti misteriosamente nei pertugi di una mente che non riesce neppure a trattenerli i nomi, e con essi le fisionomie altrui o i pochi rudimenti scolastici che le vengono impartiti. Lei è una bambina dall’apparente età di 14 anni, ritrovata una notte dalla polizia sul ciglio di una strada in un’imprecisata città di un imprecisato Paese, con un secchio vuoto in mano, sporca, stranita, inebetita. E tosto spedita in un anonimo orfanotrofio nell’impossibilità di restituirle una identità. La sua vita -

solcata da una ferita profonda che riguarda il suo rapporto con una madre di cui si profila all’orizzonte soltanto un’ombra lontana, ma alla quale scrive delle lettere che non imbuca e che nessuno leggerà mai - è una fuga dal mondo e dal tempo, una lotta a non impicciarsi, a rimanere ai margini fino a diventare trasparente agli occhi degli altri e farsi così dimenticare. Anche se l’indifferenza qua e là le riga il volto di lacrime e se qualche piccolo gesto d’attenzione dei compagni di sventura talora le strappa un timido sorriso o le regala una manciata di calore. Quel calore che sembra bandito dalle sue vene e la cui assenza la fa ammalare spesso e volentieri. E finire così dritta nell’infermeria dell’istituto: il solo posto dove non deve rendere conto di quel che è perché lì ci si prende cura solo del corpo, dell’involucro che avvolge i suoi troppi affanni. D’altro canto «non c’è luogo da dove il mondo sembri così lontano come da una simile stanza di malata. È un luogo in cui si è al riparo [...]. Si sta sdraiati sotto le piume e tutto ciò che è rumoroso, tutto ciò che è penetrante o pungente, tutto ciò che in generale potrebbe accadere, rimbalza contro questo morbido bastione».Ma sarà proprio un malanno più prolungato degli altri, in una sorta di beffarda rivincita del tempo, a svelare alla fine la verità circa il passato (e l’età) della ragazzina, il cui tentativo di ingannare Cronos miseramente fallirà, palesando al lettore tutto il senso di questo racconto confezionato con talento visionario. La quarantaseienne scrittrice tedesca Jenny Erpenbeck, reduce dal successo del precedente romanzo Di passaggio, sceglie qui la misura breve per una storia conturbante, che sotto l’apparenza del nonsense svela tutto il suo significato allegorico e interroga il lettore sui temi eterni del dolore, della fatica di vivere, del tempo che screzia vite e relazioni e il cui scorrere ineluttabile nessun inganno può fermare.

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Jenny Erpenbeck, Storia della bambina che volle fermare il tempo, Zandonai, Rovereto (Trento) 2013, pp. 91, 8 euro

IL LIBRO DELLA SETTIMANA - Anche i suoi malanni stanno al gradino più basso della gerarchia. Persino il raffreddore, «un raffreddore indecoroso, che le fa colare il moccolo dal naso come a una vecchia...

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